Il tempo nel trauma – “Non è ora, allora?”

Il tempo nel trauma dei richiedenti asilo

Durante la mia esperienza di lavoro come psicologa in alcuni centri di accoglienza per richiedenti asilo, mi sono imbattuta in un grosso problema di incomprensione. Ciò aveva a che fare con il tempo nel trauma?

Le storie che leggevo nei verbali della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale non avevano senso! Mi apparivano come una manciata di dettagli (perfino insignificanti, dal mio punto di vista) buttali qui e là a casaccio; della sequenza temporale non c’era traccia. Con mia grande sorpresa però, nel momento in cui parlavo con le persone, mi accorgevo che le loro storie acquisivano un senso anche per me e filavano come l’olio. Era evidente che il loro modo di costruire una storia non era lo stesso che usavo io.

Ipotesi disattese

Le mie ipotesi per spiegarmi la faccenda furono diverse.

Uno

Era un problema di analfabetismo, i giovani africani non scolarizzati non hanno familiarità con situazioni di questo tipo (ipotesi smentita dall’incontro con uomini dall’alto livello di istruzione, compresi professori universitari).

Due

Il racconto, per acquisire senso, doveva presupporre la dimensione dialogica, doveva esserci un altro con cui interagire tramite domande e risposte. Di contro, la consegna tipica della Commissione suona più o meno così: “Ora vorrei chiederle di raccontarmi i motivi per cui ha lasciato il suo Paese. E’ una parte importante dell’audizione per cui io non la interromperò e se c’è qualcosa che non capisco o su cui ho bisogno di maggiori dettagli le farò delle domande dopo.”  (raramente ci sono domande di approfondimento in seguito).

Tre

Le comuni esperienze traumatiche vissute nel paese di origine o di transito avevano compromesso le capacità cognitive coinvolte nell’organizzazione dei ricordi.

Quattro

Semplicemente il loro senso del tempo (e delle cose in generale) non corrispondeva al mio (né tanto meno a quello della Commissione). A quest’ultima ipotesi è seguito un meticoloso lavoro, fatto insieme ai diretti interessati, di decostruzione delle storie secondo i parametri originari (a me sconosciuti) e ricostruzione delle stesse secondo i parametri occidentali, affinché divenisse materiale comprensibile per le istituzioni italiane. Ho trovato interessante questo processo trasformativo delle storie, e mi piacerebbe poter approfondire la ricerca in questo campo.

Il tempo secondo le neuroscienze

Ma da dove arrivano queste differenze nel senso del tempo? Secondo le neuroscienze il tempo fa parte della biologia, e i meccanismi nervosi che sono alla base della sua percezione sono trasmessi geneticamente, selezionati nell’evoluzione

“per dare un ordine e una successione agli eventi della vita (…) e lavorano secondo i principi generali dei fenomeni cognitivi” (Benini, 2017).

Il senso del tempo e dei ritmi circadiani sono oggetto di un’intensa ricerca, basata soprattutto sullo studio degli effetti delle lesioni cerebrali, soprattutto nella corteccia prefrontale. Senza senso del tempo non è possibile il linguaggio, né la musica; esso risponde a “un’esigenza biologica della specie” (ibidem), determina la causalità e le decisioni comportamentali, e segue precise tappe di sviluppo.

L’influenza epigenetica dell’antropopoiesi

Possiamo allora pensare che l’antropopoiesi abbia una influenza epigenetica sui meccanismi neurali coinvolti?

Se penso a come mi apparivano gli elementi costitutivi delle storie raccontate dagli ospiti dei centri di accoglienza, rispetto alla versione italianizzata formata da punti susseguentisi lungo una freccia del tempo, me li immagino così:

il tempo nel trauma
Immagine tratta dal sito dell’European Space Agency

Secondo il matematico Minkowski e la teoria della relatività di Einstein, il tempo non esiste come dimensione assoluta, è la quarta dimensione dello spazio; “ogni evento è un punto dello spaziotempo” (Benini, 2017), la cui geometria viene distorta dalla forza di gravità. Il cammino di una persona nello spazio-tempo viene chiamata linea d’universo; la vita appare così come una cartina geografica, con le sue montagne, le sue valli e le sue pianure.

La direzionalità del tempo nella comunicazione

La direzionalità del tempo influisce sulla direzionalità della logica; nel caso di direzionalità invertite “nozioni come caso e ordine non sarebbero traducibili (…), nei mondi in cui la comunicazione può essere realizzata, la direzione del tempo deve essere la stessa ovunque” (Davies, 1996). Come si può dunque comunicare efficacemente con una persona, se le direzioni del tempo non coincidono?

Se immaginiamo che nella figura sopra le sfere siano degli eventi, riusciamo anche a immaginare cosa succede quando la linea d’universo di una persona, muovendosi sul reticolo dello spazio-tempo, si imbatte in un evento molto “denso”: sarà imprigionato dalla forza di gravità dell’oggetto/evento e comincerà a girare ininterrottamente intorno alla sua orbita, senza potersi muovere ulteriormente.

Il tempo nel trauma si ferma

Questa mi sembra un’immagine che calza perfettamente sul concetto di trauma. Van der Kolk descrive i soggetti traumatizzati come persone per le quali lo scorrere del tempo si è fermato, a causa di una minaccia di morte (un evento/oggetto denso) e rivivono perciò le esperienze traumatiche in un eterno presente che si ripete continuamente; sono bloccati in un evento che sta ancora accadendo, ora, e non in un evento che si è svolto e concluso nel passato e che è stato integrato nella storia di vita, nella linea d’universo.

Se è vero che “molti stati iniziali portano allo stesso stato finale; il percorso a ritroso non è univoco” (Davies, 1996), di nuovo penso alla società occidentale dell’era digitale come a una società traumatizzata: “la memoria umana è una narrazione, un racconto al quale pertiene necessariamente il dimenticare. La memoria digitale, invece, (…) consiste di punti-di-presente indifferenziati, per così dire morti viventi” (Han, 2016).

Terapia bottom-up

Allora, come per le persone con PTSD la convenzionale terapia verbale risulta praticamente inutile, poiché per loro è impossibile pensare, sentire, ricordare e dare senso alle cose (Van der Kolk, 2015), lo stesso vale per un qualsiasi spettatore-consumatore del web. Risulta quindi necessario un approccio terapeutico bottom-up, che lavori sulle sensazioni corporee e con le interazioni personali, per chiunque? Esistono ancora i pazienti giusti per la convenzionale terapia verbale?

Segue da Il confine con l’alterità – “Amor mi mosse, che mi fa parlare” (Dante Alighieri)

Prosegue in Buchi neri: il trauma nella fisica di Einstein – “Guardate! Le fauci del buio lo stanno divorando” (William Shakespeare)

Il presente articolo è riproducibile, in parte o in toto, esclusivamente citando autore e fonte

(Silvia Noris – www.silvianoris.it)

 

BIBLIOGRAFIA

  • Benini, A. (2017). Neurobiologia del tempo. Milano: Raffaello Cortina Editore
  • Davies, P. (1996). I misteri del tempo. L’universo dopo Einstein. Milano: Arnoldo Mondadori Editore
  • Han, B. (2017). Il profumo del tempo. Milano: Vita e Pensiero
  • Han, B. (2016). Psicopolitica. Milano: Nottetempo
  • Van der Kolk, B. (2015). Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche. Milano: Raffaello Cortina Editor

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