Homo videns e beni comuni
6 “Sono tempi maledetti quando i pazzi conducono i ciechi” (William Shakespeare)
Ma che ruolo hanno avuto, nel percorso che ho descritto nei paragrafi precedenti, le nuove tecnologie? Il politologo Giovanni Sartori, nel suo Homo videns, propone un’interessante analisi del ruolo che la televisione ha avuto nel creare il modo di pensare delle persone, per come le conosciamo oggi. Sartori direbbe modo di non pensare, la sua è una dura critica verso il post-pensiero, perché la televisione “sta cambiando la natura dell’uomo […] la televisione modifica radicalmente (impoverendolo) l’apparato cognitivo dell’homo sapiens” (Sartori, 2000).
Egli sostiene infatti che la capacità simbolica e astrattiva, che caratterizza l’Homo sapiens, è veicolata dal “linguaggio a costruzione logica – che consente il conoscere analitico-scientifico” (ibidem); al contrario, l’immagine non ha consecutio, non ha ordine (logos) e non forma un discorso coerente e va a finire che “la realtà diventa onirica e che il mondo diventa abitato da sonnambuli” (ibidem).
Ripercorrendo la successione giornale-telegrafo-telefono-radio-televisione, Sartori riconosce a quest’ultima il radicale rovesciamento di direzione:
“è la televisione che modifica per prima, e fondamentalmente, la natura stessa della comunicazione spostandola dal contesto della parola (stampata o radiotrasmessa che sia) al contesto dell’immagine. La differenza è radicale […] ribalta il rapporto tra capire e vedere. […] Non è soltanto strumento di comunicazione; è anche, al tempo stesso, paidèia, uno strumento «antropogenetico», un medium che genera un nuovo ànthropos, un nuovo tipo di essere umano” (ibidem),
trasformandolo, appunto, in Homo videns. Perché, come dice il detto, un’immagine vale più di mille parole; il linguaggio percettivo ha più peso di quello concettuale.
L’analisi di Sartori è il più delle volte condivisibile, soprattutto nelle implicazioni politiche e di potere, che rileva nel mezzo televisivo: esso ha un ruolo decisivo nei processi formativi dell’opinione pubblica e “impoverisce drasticamente l’informazione e la formazione del cittadino […] svuota la democrazia come governo di opinione” (ibidem). Questo succede perché l’infotainment (fusione di information e entertainment), tipico dei programmi televisivi, semplifica l’informazione e la imprigiona nel visibile, mistificandola; quel che non viene visto semplicemente non succede, il mondo viene perso di vista nel suo complesso e finisce per non interessare più, le capacità astrattive e critiche vengono disattivate.
Pure, a volte, le riflessioni di Sartori suonano decisamente datate (la prima edizione è del 1997; da allora sono cambiate molte cose nell’innovazione tecnologica) e sembrano avere mancato il punto cruciale di quello che sarebbe stato lo sviluppo successivo alla televisione. Decisamente più centrato sul vissuto esistenziale e sull’attualità informatica è Byung-Chul Han, la cui critica è sottile e acuta. Secondo lui, non solo ci si informa senza sapere, ma anche si viaggia senza fare esperienza e si chatta sui social senza socializzare, poiché manca la temporalità della maturazione e della trasformazione. Il tempo è contratto, in una successione di presenti puntuali, e accelerato. “La detemporalizzazione non consente che si verifichi alcun progresso narrativo. Il narratore si trattiene su ogni più piccolo e insignificante evento perché non è in grado di distinguere l’importante da ciò che non lo è” (Han, 2017).
La consecutio logica di cui parla Sartori manca anche nei cosiddetti big data, per i quali non è richiesto senso, né narrazione, né teoria; “le correlazioni sostituiscono la causalità: l’è-così prende il posto del perché. La quantificazione della realtà basata sui dati allontana completamente lo spirito dal sapere” (Han, 2016). “Heidegger direbbe che oggi il rumore della comunicazione, la tempesta digitale di dati e informazioni, ci rende sordi nei confronti del fragore silenzioso della verità” (Han, 2017).
Al mondo dell’immagine di Sartori, Han contrappone il mondo del profumo, parlando in maniera commovente dell’orologio a incenso in uso nell’antica Cina.
“Ma il profumo è anche lento. Per questo, neppure dal punto di vista mediale, è adeguato all’epoca dell’affanno. I profumi non possono succedersi l’uno all’altro alla stessa velocità delle immagini ottiche. A differenza di queste, i profumi non si possono neppure accelerare. Una società dominata dai profumi probabilmente non svilupperebbe affatto una tendenza al mutamento e all’accelerazione, mentre si nutrirebbe del ricordo, e della memoria, della lentezza e della permanenza. L’epoca dell’affanno coincide allora con un’epoca «cinematografica», diffusamente forgiata sul visuale” (ibidem).
L’abuso di immagini, soprattutto attraverso i nuovi dispositivi elettronici, ci rende dunque meno umani? Secondo recenti studi, la sola presenza di uno smartphone (silenzioso e girato a schermo in giù) sul tavolo tra due persone che interagiscono, è in grado di compromettere la qualità relazionale percepita (Gazzaley e Rosen, 2016).
7 Né carne né pesce
Il panorama odierno, in cui si cercano soluzioni di mercato ad una crisi ecologica e umanitaria che è dovuta a cause commerciali, è caratterizzato dall’alleanza tra privato e pubblico nella costruzione di un’ideologia della crescita e dello sviluppo. In una “logica perversa, che naturalizza uno stato di cose che è frutto di continue e consapevoli scelte politiche camuffate da necessità” (Mattei, 2011) e che si nasconde dietro una falsa opposizione tra privato e pubblico, si rincorre assurdamente la crescita infinita in un pianeta dalle risorse finite.
Il pensiero giuridico, politico ed economico hanno costruito nel tempo l’apparato ideologico per legittimare la violenza di queste scelte. L’economia in particolare rappresenta oggi la “vera scienza dello sfruttamento delle risorse naturali e delle forze produttive” poiché “emargina la dimensione politica di ogni problema, provocandone la riduzione a una dimensione tecnologica (o tecnocratica) e accademica inevitabilmente riduttiva” (ibidem).
Ma come si è arrivati ad un immaginario collettivo che si rappresenta l’essere umano come individuo solo, che esercita la propria libertà esclusivamente nell’accumulo e che esperisce le relazioni esclusivamente nella dinamica del consumo? Come si è arrivati all’idea che il privato non abbia responsabilità sociali e che possa usare e abusare del suo bene in modo arbitrario? All’idea che le possibilità politiche si esauriscano nel continuum tra liberismo e statalismo (e tra sinistra e destra), che si fondano però sullo stesso paradigma basato sulla esclusione e sulla concentrazione di potere? Come si è attuata la trasformazione da cittadino attivo in consumatore passivo, che privatizza risorse collettive ogni volta che soddisfa i suoi bisogni sul mercato (o meglio, i bisogni del mercato percepiti come suoi)?
Secondo Ugo Mattei, giurista, l’origine della falsa contrapposizione tra Stato e mercato, tra pubblico e privato, è frutto di un periodo storico che ne giustificava l’opposizione ma che al giorno d’oggi risulta insensata (vedere il paragrafo 2.1). Questo perché
“la tradizione occidentale moderna si è sviluppata nell’ambito della dialettica Stato/proprietà privata in un momento storico in cui soltanto quest’ultima pareva necessitare di protezione e garanzie nei confronti di governi autoritari e onnipotenti. Di qui la genesi delle garanzie costituzionali della pubblica utilità, della riserva di legge e dell’indennizzo” (ibidem).
In particolare, il clima della Guerra Fredda, portò “proprio intorno agli anni Settanta, al proliferare di cattedre affidate ad economisti vicini alla Scuola di Chicago (filone di pensiero economico che promuove la dottrina liberista) perfino nelle facoltà di Giurisprudenza e nei dipartimenti di Scienze politiche, con un’impressionante e conseguente progressiva sovversione del rapporto teorico (e in seguito anche pratico) fra istituzioni pubbliche e mercato” (ibidem, prima parentesi mia).
Le teorie accademiche che nacquero in questo contesto proponevano la proprietà privata come soluzione per la limitazione al consumo eccessivo, delegittimando il controllo pubblico sul mercato e producendo una vera trasformazione culturale. Dal criterio di giustizia si passò così a quello di efficienza economica, che diventò paradigmatico dell’organizzazione sociale, in cui comportamenti individuali prima considerati patologici sono diventati desiderabili, e del diritto, che ha assimilato una visione evoluzionistica e competitiva.
Il sapere accademico è colpevole di avere depoliticizzato le scienze sociali, come se l’asimmetria di potere fosse un tema scientifico e non politico, come se il diritto fosse una struttura reale e non un prodotto culturale. Le Università e la stampa hanno dunque contribuito rispettivamente allo sviluppo e alla diffusione di un’ideologia come strumento di propaganda e marketing; in una concezione aziendalistica e produttivistica della vita, l’unico obiettivo è quello di vendere pubblicità e formare il proprio quadro dirigente.
Ma è sempre stato così? Mattei sostiene come il motore dello sviluppo capitalistico sia alimentato dall’idea stessa di proprietà privata, intesa come progressiva usurpazione di beni comuni, che ne rappresenta il nucleo fondativo; in quest’ottica, propone due episodi cardine nella produzione della modernità. A fianco della Magna Charta del 1215, considerata il primo documento costituzionale dell’Occidente, era presente un altro testo chiamato Charter of the forest, in cui si garantiva al popolo (inglese, i commoners) libero accesso alla foresta e all’uso dei beni lì presenti, come legna, acqua, selvaggina e vegetali. In questo scritto i beni comuni erano collocati sullo stesso piano costituzionale della proprietà privata. In seguito però, nel periodo tra il 1400 e il 1700 circa, fu di essenziale importanza il fenomeno delle recinzioni della terra (le cosiddette enclosures) sul territorio inglese, che “costituiscono l’archetipo delle privatizzazioni, ossia il «privare» i commoners dei loro beni comuni. Anche etimologicamente, proprietà «privata» significa proprietà «tolta», «sottratta», non più disponibile per chi un tempo ne poteva godere” (ibidem).
Se prima i modelli di “proprietà” erano tre (il re, i proprietari terrieri e i commoners), dopo le enclosures i modelli rimangono due, lo Stato sovrano e la proprietà privata. Ai commoners non rimane altro che diventare mendicanti o briganti, e finire in carcere prima e in fabbrica (o in manicomio) poi; “i rapporti progressivamente si contrattualizzano e si individualizzano” (ibidem). Lo Stato, attraverso il sistema giuridico, attua una trasformazione della percezione della vita stessa e viene così legalizzata la pratica violenta della legge del più forte, il cosiddetto diritto naturale; “la metafora del comune come luogo del disordine originario, della guerra di tutti contro tutti, dell’assenza del diritto, dello stato di brutalità in cui ogni organizzazione civile era impossibile, divenne la narrativa dominante” (ibidem).
La terra diventa una merce sottomessa al dominio privato, “l’esclusione degli altri, la privatizzazione del loro accesso, il dispotismo arbitrario e idiosincratico del titolare costituiscono dunque l’essenza del dominio” (ibidem).
Poiché “la sovranità statuale e la proprietà privata hanno struttura identica, quella dell’esclusione e dell’arbitrio sovrano” (ibidem), essi sono alleati naturali contro il comune, che viene cancellato come categoria politico-culturale e giuridica, negandone lo statuto epistemologico. La violenza iniziale viene in questo modo scotomizzata e l’immaginario liberale costruisce la realtà, le categorie del possibile. Una volta resa egemonica attraverso la delegittimazione teorica (e pratica) di altre realtà possibili, la visione liberale diventa un dato di fatto irreversibile.
“In effetti, diritto ed economia (ma purtroppo anche la filosofia analitica e la scienza politica dominanti) fondano la propria «scientificità» nell’assumere la distribuzione iniqua delle risorse (prodotta dalle enclosures) come un dato di fatto, una specie di realtà naturale” (ibidem).
Il secondo episodio epocale che cita Mattei è la conquista dell’America, coeva del precedente, che globalizza le regole di base del capitalismo, fondate sull’accumulo privato indipendente dai costi sociali, che vengono scaricati sugli altri.
Gli effetti della mancata elaborazione teorico-accademica del comune perdurano ancora oggi; nonostante ciò, il livello attuale di violenza e distruzione è ormai tale da essere incompatibile con la sopravvivenza e da generare consapevolezza. Prende forma una resistenza contro-narrativa (anche accademica) che considera i beni comuni “come strumenti politici e costituzionali di soddisfazione diretta dei bisogni e dei diritti fondamentali della collettività” (ibidem).
Poiché l’immaginario comune, veicolato dalla scienza economica e sostenuto da un imponente apparato ideologico, è ormai colonizzato dall’idea che lo sfruttamento consumistico dei beni comuni sia naturale, è necessario un cambio di rotta radicale; servono cioè nuove categorie di pensiero, ecologico-qualitative e non economico-quantitative, per una profonda rivoluzione culturale. Innanzitutto, è necessaria una “lotta nei confronti di una «realtà» binaria (Stato/mercato) artificiosamente naturalizzata dalla retorica dominante” (ibidem) e nei confronti di una altrettanto artificiosa separazione disciplinare tra diritto, economia e politica. Dal punto di vista giuridico, va affermata l’autonomia del comune rispetto alle categorie tanto del privato che del pubblico; in questo senso, le carte costituzionali della Bolivia e dell’Ecuador (frutto di sanguinose lotte per l’acqua e la terra rispettivamente) sono ad oggi il modello giuridico più avanzato riguardo ai beni comuni.
Il rischio che un attacco all’immaginario del liberismo, se non ne corrode i presupposti più profondi, ne nasconda una forma ancora più estrema, è concreto. Ci vuole cautela, affinché non venga perduto il potenziale di nuove (o antiche) categorie di pensiero, sia in termini teorici che pratici.
Ma cosa sono i beni comuni? La definizione che possiamo dare è estremamente flessibile e la categorizzazione che ne risulta è difficile; non si tratta infatti di caratteristiche ontologiche fisse, la loro importanza dipende dal contesto, in cui “valgono per il loro valore d’uso e non per quello di scambio” (ibidem): sono cioè fuori commercio. La loro logica è partecipativa (diritto di accesso e dovere di gestione), ecologica (presuppone un equilibrio con l’ambiente), qualitativa (basata sulle relazioni e non sull’accumulo) e ha un respiro transgenerazionale e transnazionale. Mattei cita Engels quando afferma come la “stessa distinzione tra «essere» e «avere», che sembra ontologica alla mente moderna fondata sull’individuo, sfumi in economie fondate sul comune” (ibidem).
Possiamo immaginare che in origine la nozione di bene comune indicasse un aggregato di beni che erano sufficienti a garantire l’esistenza delle persone che ne avevano accesso e la riproduzione stessa dei beni (ad es. il bosco, il fiume, ma anche la città).
La definizione più sensata ai giorni nostri però è decisamente più ampia e comprende senz’altro anche beni immateriali. La salute, ad esempio, è un bene comune? La salute (senza ulteriori divisioni dicotomiche tra salute fisica e mentale, tra salute individuale e collettiva), come la conoscenza, ha una natura relazionale e cresce con la condivisione; come la conoscenza, non va d’accordo col profitto. E allora forse pensarla come bene comune può aiutare il superamento di una prassi, teorica e pratica, dimostratasi fallimentare; se un altro modo di pensarla è possibile, allora è anche necessario.
8 “We’ll try to be secure. but I’m of uncertain mind” (Van der Graaf Generator)
Penso al film Il capitale umano di Virzì, che fa uno spaccato della modernità. Ripenso all’immagine del tessuto neurale che sembra una costellazione a inizio testo e mi dico che la soluzione sta tutta lì, nel pensiero che connette (persone ma anche discipline, mondi). Ripenso anche al sottotitolo di questo testo, colpevoli nel debito e innocenti nel consumo, e mi dico che la soluzione sta tutta lì, nell’inversione dei termini: innocenti nel debito e colpevoli nel consumo. Penso ad un altro rovesciamento necessario: se il mondo che conosciamo oggi è fatto di uno spazio dilatato e di un tempo contratto, bisognerebbe restringere lo spazio (da virtuale a relazionale e corporeo, da globale a territoriale e -possiamo dirlo- etnico) e amplificare il tempo (del pensiero, delle scelte, della conoscenza, della bellezza). “Soltanto aprendo i nostri orizzonti temporali possiamo identificare i momenti in cui avvengono dei cambiamenti verso direzioni degne di nota” (Anderson, 2012).
“No, his mind is not for rent
to any God or government
always hopeful yet discontent
He knows changes aren’t permanent
but change is.
What you say about his company
is what you say about society
Catch the witness, catch the wit
catch the spirit, catch the spit.”
Rush, Tom Sawyer
Graffito, sottopasso della stazione Milano Porta Garibaldi
Il presente articolo è riproducibile, in parte o in toto, esclusivamente citando autore e fonte
(Silvia Noris – www.silvianoris.it)
BIBLIOGRAFIA
- Anderson, G. A. (2012). Il peccato. La sua storia nel mondo giudaico-cristiano. Macerata: Liberilibri
- Bersani, M. (2017). Dacci oggi il nostro debito quotidiano. Strategie dell’impoverimento di massa. Roma: DeriveApprodi
- Butler, J. (2013). La vita psichica del potere. Teorie del soggetto. Milano-Udine: Mimesis Edizioni
- Gazzaley, A. e Rosen, L. D. (2016). The distracted mind. Ancient brains in a hi-tech world. Cambridge: MIT Press
- Han, B. (2017). Il profumo del tempo. Milano: Vita e Pensiero
- Han, B. (2017). L’espulsione dell’Altro. Milano: Nottetempo
- Han, B. (2016). Psicopolitica. Milano: Nottetempo
- Lazzarato, M. (2012). La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista. Roma: DeriveApprodi
- Mattei, U. (2011). Beni comuni. Un manifesto. Roma-Bari: Editori Laterza
- Sartori, G. (2000). Homo videns. Roma-Bari: Editori Laterza
- Simone, A. a cura di (2014). Suicidi. Studio sulla condizione umana nella crisi. Milano-Udine: Mimesis Edizioni
- Stimilli, E. (2015). Debito e colpa. Roma: Ediesse
FILMOGRAFIA
- Il capitale umano (2014). Regia di Paolo Virzì
- Il mercante di Venezia (2004). Regia di Michael Radford