INDEBITO INTRATTENIMENTe – colpevoli nel debito, innocenti nel consumo (parte 3 – suicidi economici: un groviglio di debito e colpa)

4 “La preparazione alla morte dura una vita intera” (Alda Merini)

Si può morire di debito? Anna Simone, nel suo testo dedicato ai suicidi con motivazioni economiche, propone di seguire la teorizzazione di Durkheim e considerare i suicidi economici come un fenomeno sociale e non solamente come un fatto individuale, sostenendo come questa tipologia possieda una sua specificità antropologica.

Le cause dei suicidi economici, considerati da alcuni una vera e propria emergenza intorno al 2012 (ad es. Eures, vedere http://www.eures.it/upload/doc_1305878239.pdf.), vengono riconosciute in: mancata riscossione dei crediti da privati e dalle pubbliche amministrazioni, impossibilità di accesso a nuovi crediti, indebitamento con il fisco e stretta di agenzie di riscossione; più in generale il fallimento dei progetti di vita e un senso di precarietà e paura del futuro. La maggior parte dei casi coinvolge uomini tra i 40 e i 60 anni, distribuiti trasversalmente a livello geografico (da Nord a Sud in Italia, con maggior concentrazione in Veneto e in Puglia) e a livello sociale (disoccupati, operai, artigiani, imprenditori, manager, pensionati).

suicidi economici: un groviglio di debito e colpa
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Simone pone l’accento sul processo genealogico del soggetto suicidario, sottolineando l’importanza, nella sua costruzione, della “rottura del nesso lavoro/identità/dignità e affermazione del nesso tra colpa/debito/fallimento” (Simone, 2014) e della trasformazione del sistema socio-economico e giuridico, che comprende il deterioramento della qualità del lavoro, dei diritti e dei legami sociali.

Secondo Durkheim, nelle società industriali ad alta complessità e differenziazione (società a solidarietà organica), caratterizzate da un cambiamento radicale del tasso di coesione sociale, era l’anomia (intesa come assenza di norme morali condivise e perdita di riferimenti sociali, economici e giuridici) a produrre i suicidi (ibidem).

Rispetto a questa prima teorizzazione, ci troviamo ora di fronte ad uno “slittamento ulteriore: nel periodo di prima industrializzazione Durkheim auspicava nuovi modelli solidaristici di tipo organico, dunque istituzionali, per far fronte al nuovo cambiamento; oggi ci troviamo dinanzi ad una crisi e ad un’anomia generalizzata prodotte dallo sfaldamento di questi stessi modelli di solidarietà organica che, per tutto l’arco del ‘900, abbiamo definito con la parola Welfare” (ibidem).

Questa è la situazione tipica delle società che stanno attraversando una crisi economica ed un mutamento sociale profondo: la perdita dei riferimenti di un’etica condivisa e la crisi dei legami sociali generano quella che il sociologo Castel ha definito disaffiliazione: un processo di individualizzazione caratterizzato da negatività sociale, che porta a vivere in solitudine anche i momenti di difficoltà. Non si rivendicano neppure più i proprio diritti, il tempo si ferma; di fronte a una massiccia mercificazione delle relazioni, l’unico soddisfacimento possibile è attraverso un godimento perverso e compulsivo. Il consumo è una questione identitaria (ibidem).

In generale, si assiste alla trasformazione della soggettività al lavoro a partire dagli anni ’70 e dalla crisi del fordismo, che era basato sulla separazione tra lavoro salariato e tempo libero. Questo modello di inclusione e controllo garantiva diritti sociali ai lavoratori e stabilità sociale.

Al contrario, nel panorama attuale il lavoro coincide con la vita stessa, si lavora 24 ore su 24 anche grazie alle innovazioni tecnologiche, che ci consentono/obbligano ad essere sempre operativi. Il sistema estrae valore dalla vita stessa, dall’essere umano, e non ammette fallimento né sofferenza; come una moderna selezione darwiniana espelle le eccedenze, che siano esse disoccupati, malati, anziani o altro. Le nuove forme di lavoro sono tutte caratterizzate dall’investimento in soggettività; la risposta alle contraddizioni sistemiche e al disagio sociale diventa la soluzione biografica a carico del singolo. La sicurezza personale diventa una responsabilità individuale, i sistemi di protezione dai rischi sociali vengono sostituiti dalle assicurazioni private. L’angoscia collettiva si esprime solo come insicurezza individuale, libertà e rischio coincidono.

Oltre a ciò vi è una forte erosione della coscienza collettiva, che implica una maggiore gestibilità e controllabilità degli individui, nell’assenza del diritto di esercitare i propri diritti: il lavoro, da criterio costituzionale di definizione del cittadino, diventa un dispositivo di controllo sociale e di produzione patologica. “Il processo di costruzione di questa marginalità segue le stesse logiche di produzione sociale della follia e approda alla medesima soluzione: la psichiatria, cioè la tecnica di ridefinizione dell’identità degli indesiderati” (Ferraro in Simone, 2014), come delegittimazione delle forme di rivendicazione e negazione del significato sociale. In un sistema che estrae valore dai corpi e capitalizza vitalità, la morte del lavoratore è solo una variabile tra tante.

Caterina Peroni esamina nello specifico il modello di crescita economica del “Nord-Est”, che è stato caratterizzato da un sistema di piccole imprese diffuse sul territorio e basate su reti familiari ed amicali, dalla flessibilizzazione del lavoro e alla specializzazione della produzione, fondata su processi di apprendimento e innovazione. In questo contesto si sono registrati numerosi casi di suicidio di imprenditori a causa della crisi, come sintesi particolarissima tra processi di sfruttamento economico e di soggettivazione. L’imprenditore di se stesso è diventato vittima del suo stesso paradigma etico, in cui successo e fallimento sono una responsabilità individuale e lo stigma del fallimento è una vergogna insostenibile.

“La metafora bellica è ormai normalizzata nel lessico mediatico e politico di questo paese, che appare come un terreno attraversato da continui allarmi sociali a cui si può far fronte solo combattendo […]. Una società in cui il conflitto viene rappresentato, e spesso trattato, come uno scontro di cui l’unico esito può essere la produzione di vittime e carnefici, di sconfitti e vincitori […]. La storia degli imprenditori del Nord-Est, lungo tutta la sua parabola, è infatti una storia di soggetti vincitori e sconfitti, in cui il successo personale ed economico è l’obiettivo di una vita, mentre il fallimento coincide con la stessa fine. Il paradigma emergenziale traduce con il suo vocabolario dicotomico la complessità soggettiva del reale, facendo sfumare il contesto sociale, economico e politico all’interno del quale si producono le contraddizioni del capitalismo contemporaneo” (Peroni in Simone, 2014).

La costruzione soggettiva dell’imprenditore suicida si basa, secondo Peroni, su alcuni fattori antropologici specifici della storia sociale di questa regione. Da una parte la genealogia dell’imprenditore è quella della mezzadria o dell’artigianato cittadino: in entrambi i casi, proprietari del proprio podere o della propria bottega, la gestione del rischio è autonoma e non viene socializzata. L’autosfruttamento è la forma strutturale del lavoro: il destino dell’individuo e quello dell’attività coincidono, sganciati dai sistemi di solidarietà sociali e di composizione di classe. Inoltre, l’etica lavorista che vede il fallimento come una vergogna e la concezione patriarcale della famiglia accentuano la responsabilità individuale del capo famiglia, che fatica a parlare coi familiari e a chiedere aiuto.

Dall’altra parte, le varie forme di associazionismo, volontariato e mutualismo, basate sulla cultura cattolica, diffuse in questi territori per tutto il ‘900 non hanno retto all’impatto con la cultura neoliberista dell’individuo e sono andate in frantumi. Presi dall’entusiasmo per il rapido sviluppo,  sono mancate lungimiranza e consapevolezza di quanto stava accadendo.

Ma, più in generale, “nella società della prestazione neoliberale chi fallisce, invece di mettere in dubbio la società o il sistema, ritiene se stesso responsabile e si vergogna del fallimento. In ciò consiste la speciale intelligenza del regime neoliberale: non lascia emergere alcuna resistenza al sistema. […] Anche la lotta di classe si trasforma in una lotta interiore con se stessi” (Han, 2016).

Per concludere,

“ciò che questo discorso individualizzante non dice è che le banche, lo Stato e la finanza sono attori parte del dispositivo del debito, un dispositivo che produce soggettività indebitate e colpevolizzate facendo leva sull’etica lavorista dell’autosfruttamento e sulla presa in carico dei costi e dei rischi della desocializzazione del mutualismo” (Peroni in Simone, 2014).

5 “Se Dio mi assolve è sempre per insufficienza di prove” (Alda Merini)

Ma da dove arriva davvero l’associazione tra il concetto economico di debito e quello morale di colpa? Gary A. Anderson, professore di Teologia, documenta l’evoluzione delle metafore riguardo al peccato e, attraverso un’analisi storico-filologica dei testi biblici, sostiene il legame antico tra le due immagini. La premessa teorica su cui si basa lo studio di Anderson è la seguente:

“Lakoff e Johnson, al pari di Ricoeur, ci hanno mostrato come la metafora sia una variabile cruciale nella comprensione del concetto che un’intera cultura possiede riguardo al peccato e al perdono. […] Il modo in cui costruiamo un argomento è profondamente influenzato dal modo in cui lo concepiamo e lo comunichiamo” (Anderson, 2012). 

Anderson suddivide la letteratura giudaico-cristiana in due grandi blocchi, che a loro volta si riferiscono a due periodi storici differenti, durante i quali il linguaggio utilizzato per definire il peccato, e di conseguenza il perdono, cambia e si evolve accordandosi al contesto storico-linguistico. 

suicidi economici: debito e colpa
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La letteratura biblica più antica, quella dell’Antico Testamento, fa riferimento a episodi che risalgono al cosiddetto periodo del Primo Tempio (X-V secolo a.C.; il tempio cade nel 587 a.C., segue l’esilio da Gerusalemme a Babilonia fino al 538 a.C.). In questa cornice letteraria e temporale (ad es. Levitico, Isaia, Esodo, Genesi), il peccato è concettualizzato come un oggetto concreto e reale, avente peso e massa;  non si tratta di mera coscienza di colpa ma di un “qualcosa” che non può essere distrutto ma che deve essere rimosso.

L’immagine linguistica predominante del peccato è quella di un fardello sulle spalle di chi ha commesso una colpa o di una macchia sulle sue mani; quella del perdono è conseguentemente quella del rimuovere il peso del peccato dalle spalle di qualcuno, anche attraverso il sacrificio del capro espiatorio, che ne porta il peso al posto della persona. Le traduzioni di questi testi non rendono la locuzione in modo letterale, scegliendo un generico “perdonare il peccato” e non danno così valore alla metafora. Cosa particolarmente grave, secondo Anderson, poiché “i racconti sul perdono dei peccati che una cultura narra sono intimamente connessi alle locuzione di cui essa si serve per esprimere che cosa sia il peccato” (ibidem).

Il periodo del Secondo Tempio (515 a.C. – 70 d.C., anno in cui il tempio viene definitivamente distrutto) è invece caratterizzato da una trasformazione del pensiero e da un cambiamento drastico della sintassi e del vocabolario, dovuti alla dominazione persiana (538-333 a.C.) che impone l’aramaico come lingua ufficiale dell’Impero, soprattutto in ambito commerciale e normativo. Nella lingua aramaica il medesimo termine (Ḥôbâ) ha il doppio significato di debito e di peccato (mentre nel greco secolare il termine debito non ha una sfumatura religiosa); uno slittamento linguistico foggia una nuova narrativa per spiegare l’espressione biblica “portare via il peccato”, che viene trasformata in “rimettere un debito”.

“Per poter attribuire un senso a questa antica metafora, i rabbini immaginano un gruppo di bilance con debiti e meriti nei rispettivi piatti. Il «portare via» i peccati di qualcuno non si riferisce più alla rimozione di un peso dalle sue spalle, ma a un titolo di debito dedotto da uno dei piatti della bilancia” (ibidem). Nel lessico dell’ebraico rabbinico si riscontra quindi “la perfetta interscambiabilità tra la terminologia commerciale e quella teologica; il significato di quest’ultima è intellegibile solo alla luce della prima” (ibidem).

Gli ebrei erano bilingui a partire dall’esilio, durante il quale l’aramaico ha influenzato l’ebraico contribuendo allo sviluppo di una narrativa che spiegasse le loro disgrazie. La metafora del peccato come peso viene abbandonata nel linguaggio parlato dell’ebraico tardo e completamente sostituita. “In quasi tutto il Nuovo Testamento, come anche in tutta la letteratura rabbinica e nella cristianità aramaica, la metafora principale con cui ci si riferisce al peccato è quella del debito” (ibidem). L’esempio più noto è sicuramente il Padre Nostro nel Vangelo di Matteo: Rimetti a noi i  nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori.

“Nel Nuovo Testamento la metafora del peccato come debito diventa pervasiva. Gesù fa spesso uso di racconti che hanno come protagonisti debitori e creditori per illustrare le dinamiche del peccato e del perdono. […] Nella Palestina del I secolo, il termine usato per identificare il debito in contesti commerciali divenne la parola più comune per identificare il peccato in contesti religiosi” (ibidem).

Lo stesso tempio di cui narra Gesù era un luogo di deposito per privati e per i piccoli Stati del medio oriente antico. Egli non fa altro che usare il linguaggio corrente degli ebrei del suo tempo, influenzato dal pensiero e dalle tradizioni del Vicino Oriente, secondo cui un debitore insolvente lavorava a servizio del creditore fino al saldo della somma dovuta o veniva venduto come schiavo e la punizione fisica rappresentava il pagamento.

Seguendo questo ragionamento “Dio, dunque, può essere paragonato a un creditore che dispone di un titolo di debito creato nel momento in cui si compie un peccato. Egli è libero di rivendicare il vincolo a sua discrezione, che comporterà una qualche punizione” (ibidem). In tutto il periodo dell’esilio e del post-esilio, in cui il peccato è descritto come un debito e la redenzione come il pagamento del debito, “Dio è concepito come un grande contabile che risiede nel cielo” (ibidem). Molte espressioni che indicano questioni religiose, come ad esempio l’adempimento del voto, sono mutuate dal linguaggio commerciale (come la quietanza di pagamento) e seguono le regole che governavano i prestiti nella Palestina dei primi secoli d.C.; a loro volta queste erano influenzate dai costumi del Vicino Oriente, secondo cui i prestiti venivano registrati su tavolette d’argilla che avevano valore legale e che venivano rotte una volta restituito il denaro.

Coerentemente, in diversi passaggi testuali, l’atto di commettere un peccato è rappresentato come il firmare un’obbligazione, mentre l’atto del perdono come l’eliminazione del titolo di debito. In particolare, “il nostro stato di colpevolezza viene immaginato come simile a quello di uno schiavo del debito” (ibidem) e di conseguenza anche il termine per indicare la salvezza e l’espiazione in aramaico significa letteralmente “comprare il riscatto dalla schiavitù” (ibidem). Nel Nuovo Testamento il significato letterale di “cancellare un titolo di debito” corrisponde al significato metaforico di “perdonare un peccato”.

La medesima tipologia di differenze tra Antico e Nuovo Testamento si ritrova anche per quanto riguarda la periodicità legata al numero sette. L’anno sabbatico ricorre ogni sette anni, derivando dalla logica dello Shabbat settimanale che prevede il riposo dal lavoro; il settimo anno il terreno doveva restare incolto perché si riposasse e i ricchi dovevano rimettere i debiti dei poveri. La legge del Giubileo estende la logica dei sette anni (sette cicli sabbatici consecutivi): ogni 49 anni la terra doveva restare incolta e gli Israeliti che avevano dovuto vendere la propria terra ne ritornavano in possesso. Questo processo seguiva la logica secondo cui la terra appartiene a Dio, e di conseguenza nessuna vendita terrena è definitiva; ciò permetteva che la proprietà tornasse sempre nelle mani delle tribù di Israele.

Questa usanza deriva da tradizioni appartenenti alla cultura mesopotamica: quando un re babilonese saliva al trono concedeva la cancellazione del debito con  relativa distruzione dei registri di credito; cioè permetteva la redistribuzione dei terreni confiscati e la libertà per gli schiavi, consolidando indirettamente il consenso popolare (vedere paragrafo 2.1). Non è poi così diverso ai giorni nostri, basti pensare a tutti i condoni inseriti nelle manovre finanziarie all’insediamento di ogni nuovo Governo.

Quel che l’istituzione biblica del Giubileo aggiunge a questa antichissima usanza è che il re diventa Dio e la liberazione dalla schiavitù da debito diventa il perdono dei peccati. Secondo Anderson questo passaggio, visto che nei testi più antichi non si parla di perdono dei peccati ma solo di debiti monetari, è dovuto ad un errore linguistico dello scriba greco, che ha probabilmente mescolato campi semantici di due diverse radici verbali.

“Se l’anno del Giubileo era il periodo in cui veniva cancellato il debito legato alla terra, allora, senza grandi salti ermeneutici, si pretendeva anche di andare oltre e dichiarare che Dio, in quel momento, avrebbe annunciato anche il perdono dei peccati, poiché i peccati, come i debiti monetari, erano stati lentamente, ma inesorabilmente accumulati nel tempo” (ibidem).

Il risultato è un approccio bancario alla teologia.

Confermando che le idee riguardo agli eventi sono modellate dalle storie che si narrano a proposito, a loro volta modellate dal linguaggio utilizzato, Anderson prosegue la sua analisi constatando che “nel periodo in cui il peccato inizia ad essere pensato come un debito, la virtù umana assume il ruolo di un merito o di un credito” (ibidem) che viene registrato nella banca celeste.

Anche il calcolo dei meriti, come quello dei peccati, seguiva il modello commerciale della piazza del mercato;

“le due idee formano una coppia ovvia nel mondo finanziario, e continuano ad essere tali anche all’interno del pensiero religioso […] Il concetto di tesoro dei meriti che è alla base di tale ragionamento è profondamente radicata nel linguaggio e nella cultura del giudaismo del Secondo Tempio e dei due naturali eredi di esso, il giudaismo rabbinico e la cristianità antica. […] Vari autori cristiani denigrano il giudaismo come una religione puramente legalistica ed economicistica in cui i debiti di un individuo vengono matematicamente pareggiati con i crediti. I pensatori rabbinici e cristiani, tuttavia, guardavano all’elemosina come a uno straordinario insieme di proprietà «economiche». Mentre le ricompense di altri tipi di attività virtuosa potrebbero essere diminuite dal debito causato dal peccato, il «capitale» e l’«interesse» (i testi rabbinici e siriaci sono identici su questo punto) accumulati attraverso l’elemosina restano sempre accreditati al donatore” (ibidem).

E’ curioso come anche nell’ambito educativo e formativo odierno sia ben radicata la metafora commerciale-finanziaria del “credito”, basti pensare agli ECM!

In particolare, nei testi più recenti, fare l’elemosina ai poveri equivale a fare un investimento (si parla addirittura di interessi che crescono) e diventa un obbligo religioso nel giudaismo rabbinico (è il comandamento) e nel cristianesimo; mentre nella cultura greco-romana il compito di sfamare i poveri spettava allo Stato. “E’ come se la persona povera fosse una sorta di sportello automatico ante litteram attraverso cui si potesse versare un deposito nel proprio conto celeste […] una «moneta spirituale» che allevierà il debito conseguente al peccato. […] L’economia del Regno dei cieli non appare come un affare a somma zero” (ibidem); essa è, al contrario, molto proficua. Anderson cita Agostino: “Osserva i metodi di colui che presta il denaro: egli intende dare in modo modesto e ricevere con profitto; tu farai lo stesso. Da’ poco e riceverai in quantità. Guarda come aumentano i tuoi interessi!” (ibidem). Queste concezioni sono connesse sia a livello semantico che teologico dal momento che facevano parte del linguaggio colloquiale e informale della Palestina d.C.; la resa in greco, mancando queste connessioni, risulta invece problematica.

Se ripenso al contatore del debito pubblico da cui sono partita e all’effetto che mi ha fatto, mi viene allora da sorridere. Ebbene sì, anche io sono stata costruita in questo modo.

Segue in “INDEBITO INTRATTENIMENTe – colpevoli nel debito, innocenti nel consumo (parte 4)”

Il presente articolo è riproducibile, in parte o in toto, esclusivamente citando autore e fonte

(Silvia Noris – www.silvianoris.it)

BIBLIOGRAFIA 

  • Anderson, G. A. (2012). Il peccato. La sua storia nel mondo giudaico-cristiano. Macerata: Liberilibri
  • Bersani, M. (2017). Dacci oggi il nostro debito quotidiano. Strategie dell’impoverimento di massa. Roma: DeriveApprodi
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  • Han, B. (2017). L’espulsione dell’Altro. Milano: Nottetempo
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  • Simone, A. a cura di (2014). Suicidi. Studio sulla condizione umana nella crisi. Milano-Udine: Mimesis Edizioni
  • Stimilli, E. (2015). Debito e colpa. Roma: Ediesse

FILMOGRAFIA

  • Il capitale umano (2014). Regia di Paolo Virzì
  • Il mercante di Venezia (2004). Regia di Michael Radford

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