Di seguito alcune mie riflessioni in ordine sparso sul coronavirus:

Riflessioni cliniche
Sarebbe interessante esplorare, a parità di evento pandemico, le differenti reazioni individuali e collettive. In termini di stili personologici, mi pare evidente che uno schizoide non reagirà allo stesso modo di un narcisista all’isolamento e alla quarantena. Ovviamente altre differenze –anagrafiche e socioeconomiche per esempio- intervengono: un pensionato o uno statale non reagirà allo stesso modo di un precario o un disoccupato e un 90enne non reagirà allo stesso modo di un 30enne.
Ma concentrandoci sui tipi di personalità, possiamo ipotizzare che un evento di questo tipo provochi un’amplificazione delle caratteristiche idiosincrasiche e un irrigidimento delle difese abituali? O, al contrario, è più probabile una virata (rapida o graduale) verso lidi sconosciuti e inusuali? Dall’altra parte, a quali strategie collettive e condivise portano le diverse visioni culturali della malattia e della morte che possiamo trovare sparse per il mondo? Raramente popoli lontanissimi si sono trovati a fronteggiare contemporaneamente gli stessi eventi.
Resistenza comunitaria o trauma collettivo?
Se l’esperienza di perdere un proprio caro senza poter effettuare tutto ciò “si deve fare” prima e dopo (salutarlo un’ultima volta, stargli accanto mentre spira, piangerlo attraverso un corpo gruppale fatto di strette di mano, abbracci e occhi bagnati, vestiti scuri e occhiali da sole, esporlo alle visite di parenti e amici, vestirlo, celebrare la messa, portarlo in corteo, seppellirlo, ecc.) viene condivisa da una intera comunità, nella quale questa condizione viene sperimentata dalla quasi totalità dei nuclei familiari, l’effetto è quello lenitivo di una resistenza comunitaria o quello storico di un trauma collettivo?
Trauma Storico dell’Occidente
Anche l’Occidente sperimenta il suo Trauma Storico, imposto dalla colonizzazione virale e dispiegato attraverso il rapido cambiamento della norma. Secondo Judy Atkinson, che si è occupata di studiare l’impatto di eventi traumatici sulle popolazioni aborigene australiane e sulla loro trasmissione transgenerazionale, “eventi originariamente causati dalla violenza coloniale, come epidemie «accidentali», massacri, morti per inedia e reclusione forzata in riserve, hanno condotto, nell’arco di sei generazioni, a un incrementale aumento del tasso di violenza, abuso e di disgregazione della famiglia” (https://www.stateofmind.it/2016/06/effetti-transgenerazionali-trauma-australiani/).
Il trauma collettivo si trasforma facilmente in trauma storico, evitarlo significa partire “dall’assunto secondo cui la cura dei legami interrotti passa attraverso il linguaggio, le credenze, i rituali e le tradizioni del popolo che è stato intimamente ferito, fino a tessere di nuovo la trama di quel ciclo di significati condivisi interrotto che è caratteristico del trauma collettivo” (ibid.).
Inoltre, è stato in più occasioni (mi riferisco agli studi su gruppi minoritari che hanno sperimentato un decadimento culturale) è stato confermato che la disgregazione del tessuto sociale e delle pratiche culturalmente condivise ha provocato un aumento significativo di suicidi e alcolismo. Così teorizza anche Durkheim; nel caso di attualità potremmo forse considerare il concetto di anomia non come mancanza di regole, ma come repentina sostituzione delle regole stesse, con conseguente confusione e mancanza di fiducia?
Scienza e scientismo
Scienza, scienza delle mie brame. Dice Ugo Mattei, giurista: “Quando la scienza sostituisce la politica, la risposta è necessariamente soltanto una risposta tecnologica, perché la scienza produce tecnologia, la tecnologia è il modo attraverso il quale la scienza si trasforma in politica” (https://www.youtube.com/watch?v=AJUkkgvlz4o&t=14s). Scientismo, scientismo delle mie brame. Ma poi, di quale sapere medico si parla se su questa epidemia i medici si sono contraddetti con loro stessi a distanza di poche settimane e si sono denunciati tra loro?
Ancora: chi stabilisce cosa è fake news e quale teoria si può definire del complotto? La letteratura distopica non ci può più aiutare in questo senso, la fantascienza mangia inesorabilmente la polvere di una realtà che viaggia veloce. Per quanto riguarda me, scettica per vocazione, tutte le ipotesi sono sul tavolo e tutte le opinioni sono libere di essere espresse.
Ruolo ancillare della clinica
Purtroppo, ritengo la clinica condannata da se medesima ad una posizione di ancillare irrilevanza, anche quando suoi illustri rappresentanti si ostinano a dire che bisogna “stare nel proprio”. Se ci si legittimasse ad imparare, studiano certo, perfino la finanza (per prendere una disciplina di certo poco amichevole) potrebbe insegnarci che, a parità di valore numerico, la differenza nella gestione di un evento la può fare scegliere il segno + o – che al numero si pone davanti.
Quali umani?
Di certo è che si prospetta un cambio epocale di paradigma socio-culturale e politico-economico; cosa ci sarà dopo il neoliberismo è ancora presto per dirlo. Ma per comprendere quali umani saremo bisogna prima capire quale ideologia sarà e quale progetto di uomo la incarnerà. Come dice la Sironi, è necessario avere contezza approfondita della logica traumatica del torturatore, riprodotto e riproducibile in serie, per stabilire quale cura per la vittima. Secondo Mattei, “ciò che si sperimenta in frontiera poi torna in madrepatria”, come a dire che quel che stiamo assaggiando nello stato di eccezione ci toccherà poi mangiarlo normalmente, perché “chi dorme in democrazia si sveglia in dittatura”. Il capitalismo ce la farà anche stavolta a reinventarsi trovando nuove forme di sfruttamento?
1648 Vestfalia. A voler ben vedere tutto è cominciato lì, e ancora non è chiaro se lì tutto tornerà.
Fantasie di colpi di stato
Alla fine di febbraio ha cominciato a girarmi in testa la parola “sadismo”; anche se avevo la sensazione che non fosse esattamente la parola giusta mi tornava alla mente continuamente. Mi sorprendevo a pensare a quando, in un lungo viaggio in Cile, mi sono trovata davanti ai luoghi di detenzione della polizia segreta. Ricordo di aver fotografato una scritta rossa sul muro che diceva “aquì se torturò”, ricordo di aver chiuso gli occhi e aver immaginato di passare lì davanti negli anni ’70 e sentire la musica classica a tutto volume provenire da dentro. Mi sono immaginata la sensazione e l’inquietudine. Simile ma non identica a quella che mi ero immaginata durante la visita a Dachau e Mauthausen, immaginando di abitare nei dintorni sottovento e rinforzare le finestre.
Questa storia dei colpi di stato mi ha sempre incuriosito, in particolare quello che succede dopo alle persone “normali”, quelle che improvvisamente si dividono in due seguendo una linea tratteggiata in luoghi ombrosi: quelli che nascondono fuggitivi nella propria casa o nella propria auto e quelli che si scoprono soddisfatti delatori. Come ha detto Benasayang nell’intervista per Fondazione Feltrinelli, “una epidemia è il sogno di un tiranno” (https://www.youtube.com/watch?v=a58K2buoZxE).
Riferimenti
- recensione di Salvatore Inglese su “Comment devient-on tortionnaire? Psychologie des criminels contre l’humanité” di Françoise Sironi (2017)
- Miguel Benasayang, intervista del 6 marzo 2020 per Fondazione Feltrinelli https://www.youtube.com/watch?v=a58K2buoZxE
Il presente articolo è riproducibile, in parte o in toto, esclusivamente citando autore e fonte
(Silvia Noris – www.silvianoris.it)
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