Ecco un lavoro scritto alla fine del 2019, lo avevo intitolato Finalmente! Una mente al tempo della fine. Pubblicarlo ora mi fa un po’ sorridere, ma tant’è.
Franco Battiato – Invito al viaggio
https://www.youtube.com/watch?v=rG1YmXbo-z4
Zero.
Non sapendo da che parte cominciare, sarò banale e cercherò di iniziare dal principio. Per molti mesi, dopo la discussione del mio elaborato dello scorso anno sulla figura dell’uomo indebitato, ho avvertito una specie di prurito mentale, un frenetico brulicare di idee e di domande che mi portavano su sentieri diversi, apparentemente in direzioni di approfondimento divergenti tra loro, ma mi accompagnava la sensazione che si sarebbero tutti intrecciati in un unico grande percorso, se avessi avuto pazienza e intuito sufficienti, se avessi resistito alla tentazione di prendere un’unica via a dispetto della visione d’insieme. Ho letto molto e pensato, seguito conferenze e ascoltato interviste. Ho sparso appunti ovunque, disegnato schemi pieni di frecce, registrato sul cellulare vaneggiamenti da ipnosi automobilistiche.
Uno.
Il primo sentiero è partito da una domanda, che mi ha torturato a lungo: mi chiedevo come fosse possibile che la maggioranza della popolazione, vessata-sfruttata-oppressa da un piccolo manipolo di persone, non solo non reagisse, ma neppure si ponesse il problema di reagire, almeno nella sua parte maggioritaria. Dopotutto, se praticamente tutto il sistema finanziario mondiale è gestito da tre soli colossi (BlackRock, Vangurd e State Street Global Advisors, vedere ad esempio: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3385501), si tratta di un numero ridicolmente basso di persone, in rapporto alla popolazione. Perché nessuno canta con Caparezza “Non ha capito che sono disposto a stare sotto solamente quando fotto”?
Mi rispondevo che forse, semplicemente, in questo pezzo di mondo non stiamo (ancora) sufficientemente male, abbiamo ancora molti risparmi privati, molte case di proprietà e molti diritti acquisiti da erodere (questa è l’opinione di alcuni, ad esempio Giulietto Chiesa su PandoraTV, quando vengono interrogati sulle differenze tra le manifestazioni popolari di Italia e altri paesi nel mondo). Ma poi mi veniva in mente il film “12 anni schiavo” di Steve McQueen, tratto dall’autobiografia di Solomon Northup, musicista americano rapito e venduto come schiavo nel 1841.
Infatti, mentre lo guardavo alcuni anni fa, mi chiedevo la stessa cosa, e non si può certo dire che gli schiavi neri non stessero poi così male: come è possibile che così tante persone non riescano, non tanto a liberarsi, ma neppure a provarci, a progettare dei tentativi di fuga o di rivolta, e mi chiedevo quali meccanismi (psicologici?) fossero implicati. Non era la convinzione di non farcela, o almeno non solo, mi sembrava che, se esiste una verticalità nel percorso che va dal pensiero all’azione, il blocco in quel caso fosse molto ma molto a monte. Qualcosa impediva, e impedisce, la scintilla iniziale e creativamente vitale che caratterizza la lotta per la sopravvivenza.
Ne ho parlato a volte anche con alcuni richiedenti asilo, domandando loro come mai, pur essendo in moltissimi nella stessa situazione burocratico-giuridica drammatica e insopportabile, e pur dividendo la quotidianità spazio-temporale, non si parlassero tra loro cercando soluzioni comuni e strategie condivise; ho citato Hey You dei Pink Floyd, sottolineando il “togheter we stand, divided we fall”, ho parlato dei campi di cotone e del genere musicale che ne è nato, il blues. Cercavo le risposte degli altri per comprendere meglio le mie, ma le risposte non sono arrivate. Niente.
Poi, durante una lezione di Antropologia con Valerio Petrarca, ho capito che il meccanismo in gioco qui e ora, con le masse schiacciate da pochi piedi neoliberisti, è lo stesso in gioco nel colonialismo raccontato da George Balandier, in cui una minoranza straniera e cristiana domina una maggioranza autoctona e non cristiana che ne accetta i valori; non ho potuto purtroppo approfondire oltre, dato che il testo consigliatomi dal docente è disponibile soltanto in francese.
Ovviamente non ho scoperto nulla, altri ne parlano da tempo (un esempio recente: Coppo, 2019a) ma ugualmente ho trovato interessante il cambio di prospettiva che può investire l’occidentale medio (come me), dal considerarsi (eventualmente con colpa e vergogna) colonizzatore al figurarsi (sicuramente con smarrimento e confusione) colonizzato. “Credevi di cacciare ma adesso la preda sei tu” cantavano i Litfiba in tempi non sospetti. Colonizzati. Braccati.
Due.
Ecco che allora la domanda successiva è stata, ovviamente, come mi/ci hanno colonizzato? Dalla psicologia delle masse di Gustave Le Bon alla propaganda di Edward Louis Bernays, per arrivare fino a Noam Chomsky e oltre, la strada potrebbe essere infinita. Inizialmente ho cercato di approfondire i meccanismi della manipolazione, in contributi che tenessero presente le scoperte delle neuroscienze (ad esempio, Della Luna e Cioni, 2011), oltre che nella letteratura distopica (Orwell, Huxley, Bradbury, per citare i più conosciuti) e in ottimi film di fantascienza come “Inception” di Christopher Nolan in cui le idee vengono innestate nella mente utilizzando sogni su livelli multipli (da notare, nel film, il ruolo degli oggetti totem come unici indicatori di realtà).
La manipolazione vera e propria però presuppone un’intenzione, una strategia ed un obiettivo da parte del manipolatore, che a mio avviso può ben spiegare senz’altro i singoli processi (come ad esempio contingenti campagne pubblicitarie e/o elettorali), ma non può dare conto del panorama generale definito colonizzazione dell’immaginario:
“Per trovare il nome da dare allo stato attuale delle condizioni di vita umane nei paesi dell’ipermodernità, bisogna, hanno scritto Pignarre e Stengers, rivolgerci verso saperi che abbiamo squalificato: «Ciò che riesce a far coincidere asservimento, messa al lavoro e assoggettamento alla produzione di quelli e quelle che, pure in libertà, fanno ciò che devono fare, ha un nome da molto tempo. Si tratta di qualcosa di cui i popoli più diversi, salvo noi moderni, sanno la natura temibile e verso cui conoscono la necessità di allestire, per difendersene, i mezzi adeguati. Questo nome è: stregoneria.» Stregoneria, dunque, del Capitale: riduzione della possibilità (di pensiero, di azione, d’intrapresa di chi ne è oggetto-soggetto), messa al lavoro nella produzione-consumo, sottrazione della forza vitale altrui per proprio guadagno, colonizzazione dell’immaginario per sfruttare a proprio vantaggio la potenza generativa dell’immaginazione e del desiderio altrui” (Coppo, 2019a).
“Come dare in gestione le sacche di sangue dell’Avis al conte Dracula” ha sintetizzato Claudio Messora dal suo blog.
Per raggiungere il livello di pervasività che oggi possiamo osservare, è necessaria una reiterazione continuativa nel tempo, una sorta di modellamento che dura tutta una vita e che si srotola su generazioni progressive richiedendo una lungimiranza che non mi sento di attribuire neppure al più diabolico dei diabolici.
Così mi sono balzati agli occhi tanti (non credo tutti e qui ne metterò solo alcuni) capisaldi con cui sono cresciuta, che ho mangiato per colazione fin da bambina, dall’implicito bisogna studiare (almeno quanto i genitori) all’esplicito bisogna informarsi (telegiornale due volte al giorno e abbonamento ai quotidiani), votare è un dovere civico e lavorare è un valore. Bla bla bla, probabilmente non voterò mai più e se potessi non lavorare passerei il tempo a passeggiare nel bosco, leggere e poco altro (ma come è stato possibile, nella testa di tanta gente, conciliare il lavorare è un valore con il famoso Arbeit macht frei?). Ma andiamo con ordine.
Tre.
Il bisogna studiare implica come presupposto l’idea che studiando ci si possa emancipare, si possa essere liberi (pensatori e cittadini), realizzati e soddisfatti dalla vita. Ma come dimenticare che l’ascensore sociale si è fermato non molto tempo dopo la scala mobile ed è tuttora immobile? (Ad esempio: https://www.agi.it/cronaca/poverta_ascensore_sociale_redditi_italia-6306397/news/2019-10-07/). Come ho già avuto modo di scrivere nel commento al testo di Winnicott “Concetti contemporanei sullo sviluppo dell’adolescente e loro implicazioni per l’educazione superiore” inviato a Gaia Petraglia, questo ed altri presupposti devono essere rivalutati.
Scrivevo: «Winnicott è senza dubbio un gigante della teoria e della pratica clinica, ma lui stesso ci invita, quando titola di concetti contemporanei, a contestualizzarlo nella sua epoca storica; una volta notato questo particolare è stato interessante per me dare una seconda lettura tenendo a mente che si trattava di un discorso tenuto nel 1968.
Mi ha fatto un po’ sorridere rileggere in questa luce la parte in cui si sottolineano l’idealismo e l’irresponsabilità adolescenziali:
“L’immaturità è una parte preziosa della scena dell’adolescente. In questa sono contenute le più eccitanti caratteristiche del pensiero creativo, un nuovo e fresco sentire, idee per un vivere nuovo. La società ha bisogno di essere scossa dalle aspirazioni di coloro che non sono responsabili. Se gli adulti abdicano, l’adolescente diventa adulto prematuramente ed attraverso un processo falso. Un consiglio alla società potrebbe essere: per il bene degli adolescenti e della loro immaturità non si permetta loro di salire e di raggiungere una falsa maturità dando loro una responsabilità inadeguata, anche se ambita” (Winnicott, 1974).
Quale sguardo benevolmente paternalistico sui movimenti rivoluzionari giovanili dell’epoca! Chissà se quando parlava di idealismo, di libertà dei giovani di essere irresponsabili e di capacità degli adulti di confrontarsi senza spirito vendicativo, quando pronunciava le parole di cui sopra, Winnicott aveva in mente immagini come queste:
Winnicott sostiene approfonditamente il ruolo genitoriale nel superamento delle difficoltà insite nella fase adolescenziale dei figli, “il meglio che essi possano fare è di sopravvivere, di sopravvivere intatti, e senza rinunciare ad alcun principio importante” (ibidem). I genitori non devono abbandonare i figli nel momento della ribellione, pena rendere la ribellione stessa senza senso, devono anzi raccoglierne la sfida e dare al figlio adolescente il tempo di crescere, di maturare gradualmente verso la responsabilità. Chiaro, come da titolo, l’approccio educativo e pedagogico di Winnicott. “Dovete essere preparati ad essere gelosi dei vostri figli, che hanno migliori opportunità di sviluppo personale di quanto voi stessi abbiate avuto” (ibidem).
Questa frase andrebbe oggi invertita completamente, giacché gli adolescenti di oggi sono destinati ad essere più poveri dei loro genitori (a questo proposito vedere ad esempio: https://www.repubblica.it/economia/2016/08/13/news/rapporto_mckinsey_famiglie-145899035/?refresh_ce).
Winnicott parla del lavoro come lo strumento principale per alleviare il senso di colpa e la paura dei giovani in crescita. Che dire allora, se il tasso di disoccupazione giovanile si assesta oggi, in Italia, oltre il 30%? (https://www.ilsole24ore.com/art/istat-febbraio-disoccupazione-107-01percento-quella-giovanile-328percento—ABo6xgjB).
Le teorie di Winnicott sono, inevitabilmente, figlie della sua epoca e di una visione liberistica del mercato, di quel mitico raggiungimento del benessere collettivo attraverso il rincorrere dell’interesse individuale: “la società […] in quanto definizione, in termini collettivi, della crescita individuale verso il realizzarsi personale […] non vi è realizzazione personale senza società, e non vi è società al di fuori dei processi di crescita collettiva degli individui che la compongono” (ibidem). Purtroppo però, questa illusione cavalcata per trent’anni, è definitivamente dissolta: la maggior parte della popolazione dispone di sempre meno potere politico, ricchezza e futuro (Bersani, 2017).
Per restare in tema di attualità, mi chiedo in che modo si possano utilizzare oggi le affermazioni teorico-operative di Winnicott, quando egli sostiene che “dato per scontato, qui, è un ambiente abbastanza buono che la facilita (la crescita)” (Winnicott, 1974, parentesi mia), non solo in termini di ambiente sociale (comunque considerato buono, se pure imperfetto), ma anche di ambiente familiare. In particolare se Winnicott sottolinea l’importanza, citando Bowlby, della continuità delle cure, la domanda è: le famiglie odierne, con un altissimo tasso di disgregazione e spesso ricomposte o monocomposte, sono sufficientemente buone?».
A questo proposito ho trovato interessante il contributo dell’etnopsichiatria di Devereux sulla rottura del sistema familiare patriarcale e sulla trasformazione antropologica da essa derivata (Coppo e Consigliere, 2014) e di De Masi sulla funzione antropopoietica dalla famiglia e delle conseguenze della sua scomparsa, non sostituita nell’ipermodernità da nient’altro che dall’individuo solo (ibidem).
Per tornare alla scuola e al suo presunto ruolo formativo, che dire del recentissimo rapporto Ocse Pisa 2018 (https://www.invalsiopen.it/wp-content/uploads/2019/12/Sintesi-dei-risultati-italiani-OCSE-PISA-2018.pdf), non proprio lusinghiero per l’Italia? E come leggere questi dati anche alla luce delle considerazioni di diversi addetti ai lavori sul sistema Invalsi, sull’aziendalizzazione della scuola e sugli interessi privati implicati nella gestione della scuola pubblica?
(Vedere ad esempio l’intervista a Pietro Ratto, insegnante: https://www.youtube.com/watch?v=7gLi8J8fsp8&list=WL&index=11&t=0s).
Mi torna in mente il giorno in cui, all’asilo del mio secondo figlio, c’è stata l’inaugurazione del nuovo giardino e parco giochi. C’erano tutti i bambini, i genitori e le insegnati in giardino da un lato, mentre sulla porta dall’altro lato c’erano i rappresentanti delle istituzioni: il Sindaco e il Dirigente Scolastico. In un’atmosfera di solenne cerimonia, il Sindaco e il Dirigente hanno pronunciato tutto un discorso ampolloso sui diritti dei bambini, a cui i presenti assistevano commossi ed applaudenti. Io invece ero semplicemente atterrita, perché sapevo che da quello stesso asilo di lì a pochi mesi sarebbero stati espulsi, nel bel mezzo dell’anno scolastico, tutti i bambini “inadempienti” secondo il fantomatico decreto Lorenzin (DDL 73/2017, poi convertito nella L119/2017).
Ascoltavo il discorso e pensavo: “Sono solo delle scatole verbali –diritti (ma anche libertà, democrazia e altri)- ma con dentro niente. Non c’è dentro niente! Si dice soltanto, ma la realtà non è come sembra!”. Molti anni fa probabilmente me ne sarei andata o avrei educatamente preso la parola, per poi mangiarmi tutti i presenti. Non l’ho fatto, ma ugualmente mi sono interrogata e mi sono riservata il tempo per pensare e per decidere che tipo di narrazione proporre (almeno ai miei figli), che non sia sentita da me come una menzogna e che sia coerente con la mia visione delle cose.
Potrei raccontare che quello che sentono e osservano (a scuola ma non solo) è come una di quelle filastrocche nonsense che gli piacciono tanto, che non vogliono dire niente ma sono belle da dire? Se contesto la narrativa che ricevono a scuola, ne ho una alternativa con cui sostituirla? E se non ce l’ho, una bugia rimane comunque preferibile ad una non-narrazione?
Da allora, ogni volta che ho sentito un nigeriano pretendere con gli operatori dei centri di accoglienza il biglietto dell’autobus urlando “I know my rights!” non ho saputo se scoppiare a ridere o mettermi a piangere. Ma di cosa stiamo parlando? In diverse occasioni, nel confrontarmi con i richiedenti asilo sul “sistema Italia” mi sono ritrovata a dire “Non è come sembra! Questo è solo quello che noi diciamo”. Di quali diritti stiamo parlando? E di quale realtà?
Ho conosciuto diverse famiglie “no vax” che hanno deciso, dopo l’entrata in vigore del decreto Lorenzin e contrariamente alle proprie intenzioni precedenti, di non avere altri figli (se avete pensato che è meglio così, perché ci sono le evidenze scientifiche che…, vi invito ad interrompere la lettura e riflettere sui vostri processi di pensiero). A me questa sembra una cosa drammatica e violenta, almeno quanto è stato drammatico e violento trasformare i civili in militari dalla notte alla mattina (mi riferisco al decreto 177/2016, voluto da Renzi, che ha trasformato degli agronomi forestali in militari armati).
Mi ricorda di quanto mi aveva colpito anni fa leggere, non ricordo più dove, di un gruppo di indios che, dopo l’arrivo dei conquistadores, hanno smesso di fare figli per evitare di mettere al mondo schiavi da consegnare all’uomo bianco col fucile. Piuttosto che figli schiavi, meglio figli non nati; e un figlio non nato è come un figlio morto, ed è proprio come nella favola di Leonardo da Vinci (Calderugio, in Leggende) che narra di come il cardellino, una volta scoperti i suoi figli catturati e ingabbiati dal contadino, non riuscendo a liberarli, li avvelena facendogli mangiare una particolare erba velenosa.
Meglio morti, o non nati, che prigionieri. Io non so se questo ha qualcosa a che fare con il calo della natalità che caratterizza il nostro mondo da diversi anni a questa parte (https://www.repubblica.it/cronaca/2019/07/03/news/istat_crollano_le_nascite_-4_e_il_dato_piu_basso_dall_unita_d_italia-230221234/), ma forse ha un senso chiederselo.
E forse ha senso anche interrogarsi sulla visione del mondo dei figli che invece sono nati e sono vivi (sopravvissuti alla denatalità), i millenials, osservarli e chiedersi cosa succede se anche la denuncia diventa prodotto di consumo, con fior di sponsor e milioni di click.
Fabio Rovazzi (feat. Loredana Bertè & J-Ax) – Senza pensieri
https://www.youtube.com/watch?v=jolbbiInORo
Quattro.
Bisogna informarsi. Senza riprendere quanto già detto lo scorso anno sull’Homo videns e sulla mutazione antropologica della specie al passaggio dal testo all’immagine dopo l’avvento della televisione (Sartori, 2000), ci sarebbero libri interi da scrivere sull’informazione, molti sono stati scritti e molte cose sono state dette sulle varie narrazioni della Storia, partendo da molto indietro fino ad arrivare all’attualità.
Mi limito qui a descrivere quello che è stato per me, cresciuta con l’idea che il telegiornale fosse sacro in qualche modo, lo shock di partecipare personalmente a manifestazioni con decine di migliaia di persone, di fronte alle telecamere di tutte le reti televisive italiane e non trovarne poi nessuna traccia in nessun notiziario (quando si dice che il potere più grande che hanno i media è quello di ignorarti non è una metafora). Stessa cosa quando leggevo degli articoli di giornali locali e nazionali che mistificavano totalmente dei dati, anche numerici, di cui io avevo conoscenza diretta e certa.
Per non parlare di quando ho visto questi due video, inquietanti, in cui sono montati in sequenza diversi giornalisti che ripetono le cosiddette veline parola per parola. Per favore vedere https://youtu.be/_fHfgU8oMSo e https://youtu.be/dAkxR9T01pw. A me, francamente, non hanno fatto ridere. Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di un montaggio, se pure geniale, di reti televisive locali americane e che è tutta colpa di Trump, ma vorrei ricordare come i gruppi editoriali che gestiscono l’intera informazione occidentale non sono molto più numerosi dei fondi di investimento sopra citati e, oltre tutto, spulciando tra i nomi degli azionisti, si possono trovare delle sovrapposizioni piuttosto interessanti.
Inoltre, non credo che la televisione de nojaltri funzioni diversamente (solo per fare un esempio, interessante l’intervista a Bashar Al Assad, registrata e non trasmessa in RAI https://www.youtube.com/watch?v=qSIjcYTByKI e Giulietto Chiesa sulla presenza degli ospiti nelle trasmissioni televisive https://www.youtube.com/watch?v=MnwRimaS_DI&list=PLb8zj4P-HclXaoYxd6HIV09OhB-O39jMD&index=38&t=0s oppure https://www.youtube.com/watch?v=O3JdorHRGQo&list=PLb8zj4P-HclXaoYxd6HIV09OhB-O39jMD&index=71 sul ruolo dei media).
Certo, ora so meglio di prima come leggere e osservare, faccio attenzione e noto cose che mai sarebbero entrate nel mio radar, prima. Perché c’è un prima, e c’è un dopo, e non si può tornare vergini. Ovvio, sono tutte cose che “si sanno” ma un conto è saperle e un conto è sperimentarle personalmente e sentirle dentro, a rompere tutti i muri portanti (o attaccamenti), uno dopo l’altro.
Unkle (feat. Ian Atsbury) – Burn my shadow
https://www.youtube.com/watch?v=yByFAGtfssg&list=RDwONu5j2-ruc&index=8
Cinque.
Che dire del concetto di democrazia? E’ stato talmente lungo e faticoso il percorso di pensieri/letture/riflessioni/ascolti/pensieri che ho fatto negli ultimi anni che non so riassumerlo qui.
Non so neanche scegliere qualche testo da mettere in bibliografia, anche se sarebbe giusto sforzarmi e farlo, perché è importante, ma semplicemente mi accompagna un senso di nausea. “La democrazia è talmente matura da essere marcita” dice Messora.

Quello su cui vorrei condividere una riflessione è il fatto che, parlando con le persone, mi sono resa conto come, almeno in Italia, l’ideologia “di sinistra” sia più resistente al confronto con la realtà recente ed attuale, nel senso che agisce come una specie di gabbia semantica che imprigiona il pensiero critico, sfociando in un uso massiccio della negazione, se vogliamo utilizzare le parole della psicodinamica in termini di difese. Non a caso il film “Goodbye, Lenin!” di Wolfgang Becker è ambientato in quello snodo temporale cruciale per la costruzione dell’occidentalità moderna che è stato la caduta del muro di Berlino (un altro snodo cruciale per lo sviluppo dell’immaginario ipermoderno sarà più tardi l’11 settembre, in cui la sicurezza è stata barattata con il controllo).
Mi pare che quanto appena descritto possa essere in qualche modo associato al concetto di attaccamento tossico: “Come terapeuti ci interessano qui le relazioni che stabiliscono dipendenze nocive. Tossiche perché inibiscono il libero dispiegarsi della ricerca e della sperimentazione e perché impediscono l’istituirsi di attaccamenti generativi e nutrienti. Invece di attaccamenti vitali, generano legami installati per loro proprio automatismo senza il consenso esplicito e informato di chi ne verrà legato” (Coppo, 2019b).
Per me almeno è stato così, e la mia reazione al venire meno di questa difesa, è stata di tipo depressivo. Una specie di millenarismo psichico (non vale la pena fare nulla, non si mettono al mondo figli, non si coltivano i campi, non si fa niente) caratterizzato da anedonia diffusa e pervasiva, ma senza neppure la certezza della salvezza ultraterrena. Ho fatto per mesi sogni diversi ma con l’elemento centrale in comune: mi trovavo sempre in situazioni semplici e banali (come nelle corsie del supermercato per fare la spesa), in mezzo a molte altre persone, e rimanevo coinvolta in ingorghi umani persi in discussioni e azioni insignificanti, nelle quali sostanzialmente rimanevo immobilizzata. I sogni finivano con me nel gorgo umano, senza che succedesse nulla.
Mentre ero sveglia mi tormentava l’idea di stare perdendo tempo, come se mi stessi e ci stessimo tutti occupando di questioni irrilevanti. Come se, di fronte ad una gamba in cancrena si trattasse di decidere se usare il Betadine o l’acqua ossigenata. Nel tentativo di riuscire ad avere uno sguardo d’insieme, una prospettiva larga, cercando di essere una sfera di abbottiana memoria (Abbott, 1966), mi pareva che gli individui perdessero importanza, mi chiedevo “che senso ha occuparsi di fare la pedicure all’unghia del mignolo del piede sinistro, se comunque la gamba intera va inevitabilmente tagliata?” Mi sembrava impossibile poter utilizzare sia il grandangolo che lo zoom, lavorare sia sull’intreccio globale che sui singoli percorsi di vita.
Addirittura, una sera di fine settembre, durante un viaggio Pisa-Lecco mi sono dovuta fermare a dormire nel parcheggio dell’Autogrill perché mi si chiudevano letteralmente gli occhi. In 22 anni di patente non mi era mai successo di avere un colpo di sonno alla guida, neanche quando facevo due lavori e dormivo quattro ore per notte, neppure quando a volte facevo la tirata rimanendo sveglia per 48 ore consecutive. Anzi, i viaggi in macchina sono sempre stati per me ricchi di intuizioni, un’ottima occasione per riordinare le idee e connetterle tra loro, tanto che da molto ho rinunciato a vendere i passaggi su BlaBlaCar, pur di approfittare di quegli spazi di pensiero. Invece quella sera mi sono fermata a dormire, sicura che altrimenti mi sarei schiantata; era lo stesso fine settimana in cui, in una pausa della lezione, sono caduta provocandomi una microfrattura al metatarso del piede e distorcendomi il ginocchio. Qualcosa, da qualche parte, non funzionava.
Nine inch nails – Right where it belongs V2
https://www.youtube.com/watch?v=Q-6oVAIwRng
Sei.
L’ottimismo, certo, non è mai stato il mio forte; certo, al liceo il mio autore preferito era Leopardi. E sì, mentre leggevo il libro “Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine” (Danowski e Viveiros de Castro, 2017) e sono arrivata alla frase “non è successo niente – siamo solo morti” ho riso a crepapelle e mi sono sentita a casa. Personalmente, rientro in quella categoria di persone che, tutto sommato e freddo panico secondo Stengers permettendo (ibidem), tifano per l’estinzione e per il mondo-senza-di-noi. Finalmente! Come ho scritto da qualche parte non ricordo quando, «non ho la minima fiducia nell’Umanità, ma ho fiducia nella Vita». Tutto bene, quindi. O no?
No, per un tempo imprecisato non sono riuscita a leggere nulla, ed ero convinta che non sarei riuscita a scrivere neppure una riga quest’anno, al solo pensiero di mettermi a scrivere mi veniva da vomitare.
Ripenso a quando, poco più che maggiorenne e fresca di maturità classica, qualcuno mi chiamava the dark lady e a quando il mio fidanzato e convivente dell’epoca (ciao Manuel!) mi chiese di trovare il nome per un gruppo black metal di cui sarebbe stato il batterista. Io proposi e trite Moira (traslitterazione dal greco ή τρίτη Μοιρα): la terza Moira/Parca, Atropo, l’ineluttabile, colei che recide il filo della vita. Furono tutti entusiasti. Per chi non conosce il black metal può sembrare buffo il fatto che si possa essere entusiasti dell’idea della morte; in realtà è perfino scontato.
Si tratta di un genere musicale decisamente estremo, caratterizzato dalla velocità ritmica e dalle sonorità brutali, molto distorte e grezze, il cantato è di fatto un urlo incomprensibile (scream, in gergo). Per sentire qualche esempio scelto a caso: https://www.youtube.com/watch?v=iKbeRqqivdw o https://www.youtube.com/watch?v=6HCbqLB-ZmM o https://www.youtube.com/watch?v=sOOebk_dKFo. Io personalmente non lo apprezzo molto (a parte alcune varianti sinfoniche), nonostante tutto ho ancora bisogno di rintracciare nell’ascolto una linea melodica, ancorché distorta e cupa. Anche i loghi risultano di fatto illeggibili:
Molti di questi gruppi rifiutano del tutto di esibirsi dal vivo; altri, quando lo fanno, adottano costumi di scena e maquillage da morti, cadaveri o zombie (il cosiddetto corpse-paint, che pare avere origine nella mitologia norrena della legione dei morti).
Altri, dopo da diffusione del corpse paint, hanno virato verso la copertura totale del volto, che si va a confondere nel nero totale dell’abbigliamento.
Il palco è ricco di elementi simbolici (pentacolo, croce rovesciata, ecc.) e rituali, mentre i testi girano attorno a temi, appunto, di morte e suicidio, misantropia, satanismo, ma anche paganesimo legato alla tradizione scandinava precristiana (alcuni verso un franco nazionalismo) e contatto con la natura. Da quella zona infatti vengono la maggior parte dei gruppi di questo genere, non mi ha perciò stupito imbattermi in questo:
Greta Thumberg – How dare you?
https://www.youtube.com/watch?v=1kD1zubg3cA
Pur non trattandosi esattamente di black metal, comunque ci si avvicina (è mixato in chiave death metal) e non mi sorprende che la stessa Greta Thumberg lo abbia rilanciato sui suoi social e che il video sia presente sul canale YouTube di Fridays For Future e rinominato, nei commenti, heavy gretal o death gretal. Ebbene, cos’hanno in comune Greta Thumberg e l’heavy metal, soprattutto nel sottogenere black?
Dopotutto, entrambi sono scandinavi, parlano di fine del mondo ed estinzione della Specie, di isolamento (niente a che fare con l’Asperger di Greta?) e di rapporto con la natura (!). Io non lo so, ma forse la questione merita di essere approfondita e può fornire una chiave di lettura interessante di quel che succede qui e ora. Resisterei alla tentazione di ridicolizzare e minimizzare il tutto come se fosse la moda passeggera di una manica di ragazzini patologici a rischio suicidario. A parte il fatto che le frange estreme del metal di moda non lo sono state mai, si tratta poi di un genere musicale che resiste da almeno 40 anni, a differenza di altri.
Un recente brano dei The Darkness si intitola ironicamente “Rock and roll deserves to die”: il rock and roll, quello originario degli anni ’50, è defunto da tempo e la musica rock, nata col movimento rivoluzionario giovanile e simbolo di questo, merita di morire; ma non l’heavy metal, che nasce proprio dalle ceneri ancora calde del ‘68. Inoltre esistono sia letteratura (Signorelli, 1997) che dibattiti, anche accademici (ad esempio: https://www.lintellettualedissidente.it/musica/theoria-e-praxis-del-black-metal-parte-i/), sulla base filosofica che sta sotto al trucco da zombie.
Il black metal è caratterizzato da
“meditazione sugli aspetti oscuri e negativi dell’esistenza, nonché l’ossessione per la vastità cosmica, la misantropia e la fine della specie umana. […] All’idea consumistica della centralità del godimento nell’arte, e alle rigide formalizzazioni operate dall’accademia, il black metal oppone la spiacevolezza (tendente all’assoluto), del suono e l’irriducibilità formale del processo creativo. […] L’ingresso nella notte del pensiero costringe il pensatore a far ricorso alla poesia e al misticismo, anziché all’analisi e all’argomentazione razionale.
Come testimonia l’ampio ricorso all’opera del filosofo neoplatonico Pseudo-Dionigi (VI secolo d.C.) il metodo più consono allo scopo della Black Metal Theory è quello «apofatico» tipico della teologia negativa, che consiste nel negare, con un medesimo gesto, tutta la serie di attributi storicamente riferiti a Dio dalla teologia affermativa.
Scrive Dionigi: «Il discorso […] man mano che si innalza si abbrevia; e, finita tutta l’ascesa, si farà completamente muto, e si unirà totalmente a colui che è inesprimibile. […] Un annientamento nichilista di quelle caratteristiche – affidabilità del linguaggio e chiarezza della ragione – che, secondo la tradizione filosofica, costituirebbero l’essenza stessa dell’essere umano.
Questa incomunicabilità − che il black metal conduce al confine con la glossolalia tramite l’impiego dello screaming − non si limiterebbe a segnalare una banale inversione (dal chiaro all’oscuro), ma una vera e propria fuga verso l’illimitato arcipelago del non umano: «Uno strano misticismo del mondo-senza-di-noi, un ermetismo dell’abisso» che, attraverso l’oscuramento dell’osservatore, palesa (come vedremo) un mondo senza più mondo.
Scrive ancora Eckhart: «se il mio occhio vuole vedere il colore, deve essere vuoto da ogni colore»; ma se l’occhio si vela di nero (dello stesso nero del black metal), non può vedere null’altro che un’imperscrutabile tenebra” (https://not.neroeditions.com/principi-filosofia-black-metal/).

Insomma possiamo ben dire che, se il mondo-come-noi-lo-conosciamo finirà, i metallari saranno più pronti di altri. Nello stesso modo in cui Justine lo è stata più della sorella Claire, nel film “Melancholia” di Lars von Trier (Danowski e Viveiros de Castro, 2017).
Sembrerà paradossale, ma riscoprire questo mio lato scuro e boschivo (non avrei potuto avere un nome diverso dal mio) e certe sonorità cupe, mi ha permesso di schiodarmi dallo stallo, far ripartire il pensiero e l’ironia. Come scrive Altan in una vignetta “Sono ottimista. Il bicchiere lo vedo mezzo pieno. Di merda.” Per questo ho disseminato canzoni, come briciole di Pollicino: per ritrovare la strada di casa. Nel momento in cui i miei attaccamenti sociopolitici “di sinistra” vengono meno, ecco arrivare in soccorso un lupo grigio musicale, perché l’individuo senza attaccamenti “si perde nella follia o nella morte” (Coppo, 2019b).
Ed ecco che, dopo mesi di sogni impantanati, finalmente ne arriva uno nuovo: una parte di me, quella equilibrata, adattata (possiamo dire apollinea) muore. L’altra mia parte, quella creativa, anarchica (possiamo dire dionisiaca) partorisce. Perfetto, ho capito! Il mio sogno mi dice che il prezzo da pagare per l’equilibrio e la stabilità era quello di non avere accesso ad uno strato di humus tanto fertile quanto sporco. Non è il momento di essere conformisti e ben adattati, via libera alla creatività e ad una punta di hybris e di politicamente scorretto, a costo di essere un po’ nuvolosa: che nasca qualcosa di nuovo.
AB Normal – A.B. Normal
https://www.youtube.com/watch?v=qctbkZoSIFQ
Sette.
Il primo libro che ho letto dopo questo periodo di pausa è stato “L’inganno psichiatrico” di Roberto Cestari, che racconta delle visite blitz organizzate dal Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani (https://www.ccdu.org/) nei primi anni ’90 in varie strutture manicomiali italiane e affronta la tematica dei diritti umani in ambito psichiatrico. L’autore, medico, è molto critico rispetto all’approccio psichiatrico di per sé, sostenendo che alla luce dei fatti riportati “qualunque persona di buon senso arriverebbe alla conclusione che la psichiatria in quanto tale, è un movimento ideologico pseudoscientifico che va ostacolato e fatto sparire per il bene dell’umanità” (Cestari, 2012).
Scrive:
“L’opinione pubblica non era così sensibile al tema e la maggior parte delle persone, politici compresi, ritenevano che i manicomi italiani fossero già stati chiusi nel 1978, con la riforma legislativa avvenuta quell’anno […] anche se i manicomi erano una cosa del passato, l’atteggiamento verso i pazienti psichiatrici non era mai cambiato, era sempre lo stesso. […] In verità quasi nessuno è uscito vivo dai manicomi. Solo quelli che avevano i parenti che li accettavano in casa o che erano ricchi (alcune decine in tutta la nazione) hanno potuto, in pratica, andarsene. Dei più di centomila rinchiusi nei manicomi prima della approvazione della 180, al 1994 ne restavano 26.000 circa. Poche migliaia sono riusciti ad uscire, tutti gli altri sono morti durante quegli anni, dentro i manicomi stessi… […] ristrutturando dei locali, chiamandoli poi comunità. Adesso erano puliti e imbiancati di fresco. Quello era l’unico cambiamento effettivo. […] L’unico manicomio accettabile è un non manicomio” (ibidem).
Dal momento che, secondo l’autore, “la storia della psichiatria è strettamente connessa alla creazione dei manicomi, così come al «superamento» della stregoneria e della Inquisizione”, ne esamina le origini, gli sviluppi e gli intrecci con diverse storie della Storia (Pinel, Rush, Raskovic sul ruolo nel conflitto in ex Jugoslavia, Rudin nella Germania nazista, Rees alla Tavistok Institute di Londra, Esquirol in Francia, Chiarugi in Italia, Gemelli più tardi, ecc.) sottolineando come nell’800 “non appena nata, la corporazione psichiatrica rivendica subito la propria indipendenza da ogni autorità, poiché per «motivi scientifici e per competenza» non può assoggettarsi a nessun controllo né pubblico, né privato” (ibidem).
Tante cose che “si sanno”, e che sono state anche oggetto delle lezioni di Laura Faranda (che riesce a rendere poetica anche la storia della psichiatria) ma leggerle infilate una dietro l’altra fa un effetto decisamente poco rassicurante.
E ancora:
“la storia delle terapie psichiatriche è molto curiosa e ricca di aneddoti. E’ regola assodata che, quando non si sa come fare una cosa, né si ha la ben che minima comprensione della natura dei fenomeni che si osservano, si prova di tutto. Questo sistema di ricerca è definibile «a casaccio» [….]. Oggi non vengono più utilizzate (le terapie delle origini, NdA), ma è opportuno conoscerle, perché le origini storiche di ogni movimento, sono importanti. E’ importante inoltre notare che per ognuna delle terapie sopra illustrate (docce gelate, ostruzione delle arterie cerebrali, camicie di forza, castrazione, uso di sostanze tossiche o irritanti, interventi di psicochirurgia, shock insulinici, elettroshock, ecc. NdA), vi erano eminenti psichiatri e le loro autorevoli dichiarazioni, che ne asserivano l’assoluta efficacia, così come per le terapie attuali” (ibidem).
Riguardo alle terapie (psicofarmacologiche) della psichiatria contemporanea, non è più diplomatico:
“che queste sostanze abbiano egli effetti, come abbiamo visto sopra, è persino scontato. Che questi siano favorevoli al paziente è tutt’altro discorso. Certamente sono favorevoli per la società, che impreparata a fornire risposte adeguate di fronte ad una crisi psicotica, ha un mezzo per sedare e distruggere quella persona senza usare catene, ferri roventi o spargimenti di sangue. […] viene quindi prospettata una cura, descritta come efficace e priva di effetti collaterali: ciò è in pratica quello che la psichiatria afferma da secoli, relativamente a tutto ciò che ha utilizzato, compresa la lobotomia. […] Qui l’esistenza di questa malattia (si riferisce all’ADHD e al Ritalin, NdA) o disturbo (così come quella di ogni e qualsiasi disturbo psichiatrico) non è mai stata dimostrata scientificamente con principi galileiani. Dicono che ci sarebbe qualcosa di malfunzionante nel cervello di questi bambini e fanno finta di dimenticare, tra le mille altre cose imprecise o inesatte, che esiste una vera specialità medica che si occupa delle effettive alterazioni organiche di cervello e nervi: si chiama neurologia” (ibidem).
Sul DSM:
“Szasz dice in proposito, facendo un parallelo tra inquisizione e psichiatria: «…così come nei secoli passati nessuno metteva in dubbio l’esistenza delle streghe e l’utilità e le capacità tecniche dell’Inquisizione, così oggi nessuno mette in dubbio l’esistenza delle malattie mentali e l’utilità e la scientificità della psichiatria». […] Ogni e qualsiasi tipo di comportamento può entrare nell’elenco dei disturbi; l’unico criterio è che gli psichiatri che scrivono siano concordi e votino: la maggioranza decide. I disturbi psichiatrici non vengono scoperti; vengono decisi, con un sistema democratico. […] Non potrebbe accadere MAI in nessuna disciplina medica; può accadere unicamente nel settore psichiatrico. […] In psichiatria l’esistenza di ciascun disturbo (malattia mentale) è decisa a maggioranza tramite voto. Non esiste nessuna scoperta scientifica e come abbiamo già detto, se vi fosse evidenza di una specifica lesione cerebrale per un qualsiasi disturbo mentale, avremmo scoperto una nuova malattia che ricadrebbe immediatamente nel campo della neurologia. […] Qui evidentemente non siamo nel campo della scienza” (ibidem).
Scrive invece Coppo: “La psichiatria può, come fa la medicina, presentarsi come «scienza» e pretendere l’ultima parola sulla natura e cura delle sofferenze umane che non hanno origini decifrabili come le malattia del e nel corpo? In altre parole: la psichiatria ha o no il diritto di disabilitare tutte le altre teorie e pratiche relative alla salute e alle sofferenze della componente immateriale degli umani? La «diagnosi» psichiatrica è aleatoria e spesso sbrigativa. Diceva un’antipsichiatra: «La diagnosi è una spada che spezza il cuore della gnosi». Tuttavia dal punto di vista tecnico, burocratico, amministrativo e gestionale è indispensabile disporre di una diagnosi universalmente condivisa.
Due sono oggi le nosografie accreditate. ICD 10 (International Classification of Diseases), classificazione statistica internazionale delle malattie e dei problemi sanitari correlati, fu adottata nel 1960 dall’ Assemblea Mondiale della Sanità (WHA). E’ in vigore dal 1993 e riguarda tutte le malattie sia del corpo che della psiche. DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), è la classificazione dei disturbi mentali a opera dell’American Psychiatric Association giunta alla quinta edizione (2013), adottata in tutto il mondo come classificazione dei disturbi psichici.
«Disturbi», in questo caso, non «malattie», perché in psichiatria non vale la sequenza logica in grado di fare verità nel sapere medico (sequenza sintomo-sindrome-malattia e, poi, ma alla fine, diagnosi, prognosi e terapia). Non ci sono, nei diversi disturbi di competenza psichiatrica, dei «testimoni affidabili» che motivino la scelta di un farmaco come terapia eziologica, rivolta cioè a una causa morbosa identificata (come, per esempio, si può fare in medicina prescrivendo un antibiotico attivo contro lo Streptococcus pneumoniae in caso di meningite grave di cui il laboratorio abbia dimostrato l’agente patogeno).
In medicina, il «testimone affidabile» dimostra il suo potere patogeno quando nei laboratori si trasmette dal malato al sano; in psichiatria non ci sono simili testimoni affidabili che, prelevati da un malato, per esempio di schizofrenia, possano generare malattia analoga nel sano. Le nominazioni che si vorrebbero «diagnosi» non sono perciò eziologiche (causa) ma affidate alla lettura di sintomi e sindromi (costellazioni di sintomi che si presentano insieme in modo statisticamente rilevante in certe culture e non in altre) e, soprattutto, sostenute dall’efficacia sintomatica di particolari farmaci (diagnosi ex-iuvantibus).
Gli psicofarmaci sono quindi prescritti non perché riconosciuti come attivi sulle cause (l’eziologia) di quei determinati disturbi psichici, ma perché attivi su un insieme di sintomi affini presentati da determinate categorie di pazienti assemblati a partire da valutazioni statistiche e poi fissati nel DSM come «disturbi»” (Coppo, 2019a).
Ancora, scrivono Cardamone e Zorzetto: “queste dinamiche –se ancora ce ne fosse bisogno- testimoniano di come i concetti della psicopatologia, della psichiatria e delle varie psicoterapie lungi dall’essere effettivamente scientifici, rimangono concetti-bandiera nel senso messo in evidenza in ambito etnopsichiatrico” (Cardamone e Zorzetto, 2019).
Litfiba – Ci sei solo tu
https://www.youtube.com/watch?v=ULqO7uHlRXQ
Ricordo bene cosa pensavo quando, una volta laureata, ho iniziato a svolgere il tirocinio e ad osservare i colleghi. Pensavo: “ma che cosa ho fatto? Io non voglio questo potere!”. Sarà che una delle frasi che sentivo sempre da piccola era proprio ubi maior, minor cessat. Sarà che nel 1988 avevo 9 anni ascoltavo un album appena uscito, pieno di riferimenti sociali e politici (Litfiba 3), che è rimasto uno dei miei album preferiti di sempre; la frase “prendo il sole e prendo pure la luna, oltre queste sbarre mi vedrai volare” è rimasta scritta sul muro vicino al mio letto per molti anni.
Un analista un giorno mi ha raccontato un aneddoto: nel giorno in cui ha sostenuto la prova finale per diventare ufficialmente psicoanalista, nell’attesa che gli fosse comunicato il risultato chiacchierava con un collega anziano e conosciuto, e gli disse qualcosa come “insomma, quando la smetteremo con questa asimmetria di potere con i nostri pazienti?”. Il collega si fece serio e gli rispose “se lo ripeti un’altra volta entro in Commissione e ti faccio bocciare”. Ma ora a che punto siamo?
La lettura di questo libro è “capitata” proprio nel periodo in cui mi sono ritrovata di fronte alla candida richiesta di redigere e fornire un “profilo psicologico” per ogni persona (richiedente asilo) con cui avevo avuto a che fare durante un progetto. Di fronte ad obiezioni di carattere etico e deontologico, la risposta è stata: “ma non preoccuparti, tanto a loro non lo diciamo! Lo hanno sempre fatto tutti!”
Ebbene, dopo insistenze e pressioni di vario genere, la questione si è chiusa con l’invocazione di un parere dell’Ordine della Lombardia, a cui ho anche chiesto una chiarificazione sulla professione nella terra di nessuno dell’accoglienza, perché mi pare che «con una utenza straniera e con un basso livello di istruzione, sia più facile dimenticarsi quali siano i fondamentali della nostra professione». Per la cronaca, l’Ordine mi ha risposto nel merito specifico, ma non sul tema in generale.
Dopotutto, la risposta è ovvia: come si discute tra colleghi del settore, basta vedere qual è il Ministero di riferimento per l’accoglienza, per capire quale sia la finalità del sistema. Così anche si dibatte in sedi istituzionali (Cardamone e Zorzetto, 2019), sottolineando come la competenza del Ministero dell’Interno tradisca una gestione in termini di ordine pubblico e sicurezza, diversamente sarebbe stato se la competenza fosse stata in capo al Ministero della Salute o delle Politiche Sociali. Come già detto in precedenza, “non è come sembra”: si dice accoglienza, si agisce controllo.
Non è la prima volta che assumo posizioni di questo tipo, anche con rappresentanti delle istituzioni e delle forze dell’ordine, ma è chiaro che, a questo punto, non sarà facile continuare a lavorare nel settore. E che dire se, nel servizio pubblico, l’equipe “curante” si intrattiene in assidue e dettagliate telefonate con le forze dell’ordine, in assenza di una qualunque delle occorrenze previste dalla legge?
Mi ha fatto uno strano effetto, alla luce di tutte queste cose, leggere del clima sociale-culturale-politico che ha fatto da brodo primordiale alla riforma del ’78 (Cardamone e Zorzetto, 2019).

Alla fine, di che psichiatria stiamo parlando? Quando si parla di clima sociale-culturale-politico attuale, esattamente, di cosa si parla? Io credo che il salvinismo non sia la malattia, ma solo il sintomo, per quanto fastidioso. Facendo il verso ad una famosa canzone: oltre a Salvini c’è di più. E dovrebbe preoccuparci un bel po’.
Siamo proprio sicuri che sia solo il sintomo a dover essere fatto sparire, o possiamo pensare di occuparci anche della malattia? Altrimenti di cura palliativa si tratta, e di solito si fa all’hospice. “Sicché la nostra società ha prodotto attivismo e non azione. Perché l’azione vuol dire capacità di scelta; l’attivismo è essere costantemente in moto in forza di una azione di altri” (Natoli, 2019).
Otto.
Quale pensiero, dunque, e quale azione? Quale prospettiva futura per i professionisti della salute mentale, o cosiddetti tali? Dobbiamo essere pronti a tutto? O l’approccio fondato sull’emergenza/urgenza è fallimentare in quanto parte stessa del problema, come nel caso del sistema di “accoglienza” dei richiedenti asilo?
Se rileggo quanto scritto finora qui e se ripenso a quanto scritto gli anni precedenti, nei miei lavori di passaggio d’anno, mi domando effettivamente come vada considerata la società del qui e ora e come vadano affrontate le psicopatologie (o presunte tali) odierne. Perché, come dice la medicina (psichiatria compresa), la diagnosi giusta è essenziale per pianificare il trattamento. E allora: siamo tutti traumatizzati e invisibilmente brutalizzati da un sistema totalitario sottile e capillare? O abbiamo tutti un disturbo dell’attaccamento (attaccamenti tossici o assenti) che ci porta a cullarci tra le braccia di un regime totalitario? Oppure la sindrome di Stoccolma esiste, e ne siamo tutti affetti? O ancora, siamo tutti tossicodipendenti?
Quanto mi ha stuzzicato, a questo proposito e in relazione al mio lavoro sul debito, la riflessione sull’etimologia delle parole della dipendenza: “Per la psichiatria dominante oggi nel mondo, quella americana, il nome delle dipendenze è Addiction. […] Le due parole, dipendenze e addiction, hanno tuttavia origini e significati diversi […] Dipendenza è, letteralmente, la condizione di chi è appeso, attaccato (dal latino de pendere) […] ma in latino addictus è chi, non avendo onorato (o potuto onorare!) un debito contratto, diviene schiavo del creditore. I due termini si riferiscono quindi a un vincolo, una cattura, un debito stipulato” (Coppo, 2019b). Siamo tutti debitori e dunque colpevoli?
Intendo dire che forse, al di là delle singole espressioni di sofferenza che possiamo trovarci di fronte nel nostro lavoro, tutti (mi riferisco ad un tutti etnocentrico, ovviamente, nel senso di noi) vanno considerati portatori di un disagio condiviso anche se latente. Oppure, al contrario, nessuno?
“Il soggetto universale della conoscenza psichiatrica, psicoanalitica e psicologica, costituitosi in rapporto all’idea universale di verità, arriva a sua volta a fabbricare un oggetto umano universale. Il triangolo universalista oggetto-soggetto-verità permette di saturare il campo sociale e di marginalizzare in esso le altre forme di conoscenza e, ancor più, di intervento terapeutico (saperi assoggettati). Nel mentre riconosce la valenza della psicoterapia istituzionale francese, dell’antipsichiatria inglese e della psichiatria democratica italiana, Foucault (cit. in Lagrange, 2003) segnala anche i loro rispettivi limiti e soprattutto indica la possibilità di un loro possibile oltrepassamento attraverso una rottura etnologica con la psichiatria.
Secondo Foucault, per la fuoriuscita dal triangolo universalista è necessaria una demedicalizzazione della follia e questa «…non implica solamente una riorganizzazione dell’istituzione psichiatrica; si tratta senza dubbio anche di qualcosa di più di un semplice taglio epistemologico; forse più ancora che di una rivoluzione politica, è in termini di rottura etnologica che bisognerebbe porre la questione. Semplicemente, forse non è né il nostro sistema economico e neanche la nostra forma attuale di razionalismo, bensì tutta la nostra immensa razionalità sociale nel modo in cui si è ordita storicamente a partire dai greci; è forse a questa che ripugna validare, nel cuore stesso della nostra società, un’esperienza della follia che sarebbe prova di verità senza controllo del potere medico» (Foucault, cit. in Lagrange, 2003, 367-368)” (Cardamone e Zorzetto, 2019).
Edoardo Bennato – Dotti, medici e sapienti
https://www.youtube.com/watch?v=ilamMt76ugY
Nove.
A questo punto riporto quanto già scritto a Giovanni Stanghellini come parte del commento al suo libro (Stanghellini, 2017) sulla PNEI (Psiconeuroendocrinoimmunologia), perché comunque mi sembra una prospettiva interessante, nell’ottica della multidisciplinarietà, che mi riservo di approfondire. Lo copio tale e quale, anche se oggi lo scriverei diversamente e se forse sembrerà un corpo estraneo.
«… con la considerazione che il corpo è a tutti gli effetti la parte più intima della identità personale, mi è venuta in mente la riflessione che fece una docente universitaria durante il corso di Biologia, secondo la quale il tubo digerente, pur essendo -in termini di spazio occupato- dentro il corpo, in realtà è esterno ad esso -in termini di sostanza ontologica- per tutta la sua lunghezza, avendo due aperture agli estremi (bocca e ano). La conclusione che la docente ne traeva era che i cibi introdotti in questo spazio esterno dentro, devono sì essere puliti, ma non certo sterili, a differenza di ciò che viene introdotto nel dentro interno (ad esempio con le iniezioni) che al contrario deve essere sterile per non causare infezioni.
Volendo perseverare -pur senza intenzione- nella logica cartesiana, durante la lettura di tutto il testo è stata infatti costantemente presente l’immagine del parallelo “biologico” del discorso che veniva delineato sul piano della salute mentale. L’occidente moderno è caratterizzato da un’igiene (degli ambienti, del corpo, degli alimenti) che possiamo definire in molti casi eccessiva (https://www.corriere.it/salute/malattie_infettive/17_febbraio_16/quando-troppa-igiene-fa-male-non-solo-bambini-f17232b2-f45c-11e6-9cca-0c3deaabbf55.shtml) e da un ideale di pulizia che si avvicina molto alla sterilizzazione (pensiamo alla pubblicità dei prodotti per la pulizia della casa in cui si promette l’eliminazione del 98% o del 99,9% dei batteri).
Questo ideale deriva dalla concezione stessa di salute e di malattia che abbiamo, regalataci in parte anche dalla teoria di Pasteur: le malattie sono causate da microrganismi che entrano nel nostro corpo. Cosa c’è di più Altro di un batterio che entra nel mio corpo facendomi ammalare?
L’idea di cura che consegue a una concezione di malattia di questo tipo, che è ancora ad oggi quella più accreditata (almeno tra l’uomo comune, ma non solo), passa sostanzialmente per la distruzione sistematica, soprattutto attraverso l’uso degli antibiotici, dei batteri. Secondo la vulgata, bisogna impedire che questi microrganismi trovino un ambiente favorevole al loro insediamento; se ciò è impossibile da evitare, l’Altro invasore deve essere annientato ad ogni costo.
Purtroppo per questo modello medico, e per noi che lo abbiamo seguito a lungo, l’Altro in questione non si fa annientare facilmente: l’antibiotico resistenza causa ogni anno migliaia di morti (vedere ad esempio: http://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/sanita/2019/03/13/-in-italia-primato-decessi-per-antibiotico-resistenza-_7abb69cf-5259-4af3-b86e-3ec48be4a0e7.html) e diverse ricerche hanno dimostrato come la maggior parte della “nostra” componente genetica (il microbioma umano) non è propriamente nostra, ma viene espressa da quella popolazione microbica che vive con il nostro corpo e che forma nel suo insieme quello che viene chiamato microbiota (vedere ad esempio: https://microbioma.it/gastroenterologia/microbiota-e-microbioma-quale-differenza/).
La Psiconeuroendocrinoimmunologia, modello scientifico che si propone di studiare la comunicazione tra i vari sistemi biologici e la psiche, presuppone un’influenza reciproca tra questi sistemi e con l’ambiente, sostenendo come il microbiota abbia un coinvolgimento notevole nell’attività metabolica, negli stati psicologici e nel funzionamento del sistema immunitario (vedere ad esempio: https://sipnei.it/wp-content/uploads/2013/05/20130102151117_pneinews6-2012-ridotto.pdf o https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/pediatria/allergie-pediatriche-sporco-e-batteri-proteggono).
A questo proposito, mi sembra interessante far notare che il funzionamento del sistema immunitario si basa sulla distinzione tra self (strutture endogene e, nella definizione più recente, esogene che non costituiscono un pericolo) e non-self (strutture esogene o endogene che costituiscono un pericolo) e che la maturazione dei linfociti T, responsabili della risposta immunitaria adattiva, avviene nel timo (vedere ad esempio: http://www.treccani.it/enciclopedia/timo-organo_%28Dizionario-di-Medicina%29/).
Curiosamente, il nome di questo importantissimo organo ghiandolare, deriva dalla parola thymos (θυμός), che in greco antico indicava la facoltà dell’anima che riguarda l’emozione e la tumultuosa energia vitale (http://www.geagea.com/11indi/11_14.htm), e che oggi viene usata per formare termini psicologici e psichiatrici che riguardano l’umore e le emozioni, come ad esempio eutimia, distimia, ciclotimia, atimia, alessitimia, ecc. Quindi l’umore ha qualcosa a che fare con il riconoscimento dell’Altro?
E allora, possiamo pensare che questa idea di salute e malattia, secondo la quale quest’ultima è veicolata nella maggior parte dei casi da un Altro malevolo, sia la medesima anche nel campo della salute/malattia mentale? Dove l’Altro non è in questo caso un batterio, ma l’alterità che ci abita, nostro malgrado, e senza la quale la nostra stessa esistenza non sarebbe possibile (ci insegna Hegel), come nel caso del microbiota. Mi chiedo dunque se il nostro tempo non sia caratterizzato da una eccessiva igiene affettiva e relazionale, nel senso di una spasmodica ricerca della non contaminazione con l’Altro. E allora, forse, alcuni quadri psicopatologici sono la controparte psichica di malattie autoimmuni (in cui il corpo attacca le proprie cellule e i propri organi, il self) e allergie (in cui il corpo reagisce in maniera eccessiva a un agente esterno innocuo), così tipiche di questo periodo della storia occidentale.»
Dieci.
Alla fine, gira che ti rigira, l’humus greco torna sempre fuori. Scrivono, a proposito di Pachamama nella discussione sulla fine del mondo, che “almeno non parla greco” a differenza di Gaia (Danowski e Viveiros de Castro, 2017). Tra l’altro, chi potrebbe fare da mediatore in un dialogo tra Gaia e Pachamama? Quale lingua parlerebbe? Comunque giustissimo, lei non parla greco; ma io sì. E non so se sono in grado di rinunciare (anche) a questo e neppure so se è giusto farlo. Da qualche parte dovrò pure mettere i piedi, se voglio sapere dove ho la testa.
Quando ero al liceo, durante una lezione di arte, ho rubato una diapositiva in cui era rappresentata Amore e Psiche di Canova. Mi piaceva la favola, mi piaceva la statua, mi piaceva tutto. L’ho appesa in camera mia, al lampadario centrale della stanza, in modo che fosse all’altezza dei miei occhi e in modo che la finestra la illuminasse da dietro.
La guardavo ogni volta che ci passavo davanti, bastava un attimo, ed è rimasta appesa lì finché me ne sono andata di casa; mi ha seguito in tutte le case che ho cambiato e la conservo ancora oggi, anche se è appesa al muro del soggiorno tra mille altre cose e non la guardo mai. Io so che c’è. “Pronuncio il tuo nome contro ogni sventura” cantava Franco Battiato.
Mi sono sempre chiesta come mai, nella favola di Apuleio, le sorelle di Psiche, che tramano contro di lei e la fanno cadere in disgrazia, non vengano mai nominate. Non è dato sapere il nome del nemico familiare, intimo e umano, di Psiche. Sappiamo solo del nemico estraneo, esterno e divino: Venere, che nulla avrebbe potuto, senza l’intervento dell’innominabile nemico familiare. Un’altra cosa che ora mi sembra interessante è che, durante il suo vagare in cerca di Cupido e dopo essere stata dissuasa da Pan dal suicidarsi, Psiche “… raggiunse quei sacri altari. Vide spighe di frumento a mucchi e altre intrecciate in corone, spighe d’orzo, falci e attrezzi per mietere ben lustri ma sparsi qua e là alla rinfusa, come sogliono lasciarli d’estate per il gran caldo i contadini stanchi.
Psiche con gran cura cominciò a dividere e a mettere in ordine, pensando giustamente che ella non dovesse trascurare nessun tempio e pratica religiosa ma anzi invocare la misericordia e la benevolenza di tutti gli dei. Mentre tutta sollecita Psiche era intenta a questo lavoro sopraggiunse Cerere: ‘Oh, povera Psiche’ esclamò da lontano. ‘Venere è furibonda con te e ti sta cercando per mare e per terra; vuole ucciderti e con tutta la sua divina potenza grida vendetta. E tu te ne stai qui a occuparti delle mie cose e a tutto pensi fuorché a porti in salvo.’
Allora Psiche prostrandosi dinanzi alla dea e bagnando con copiose lacrime i suoi piedi e spazzando con i capelli la terra, cominciò a pregarla in mille modi, a invocarne il soccorso: ’Ti supplico per questa tua mano dispensatrice di messi, per le gioconde feste della mietitura, per gli inviolabili misteri dei tuoi sacri arredi, per il tuo alato cocchio al quale, per servirti, sono aggiogati serpenti, per i solchi delle campagne di Sicilia, per il carro che ti rapì Proserpina, per la terra avara che te la sottrasse, per la sua discesa agli Inferi a nozze tenebrose, per il suo ritorno alla luce, per ogni altro mistero che il silenzio del tuo santuario, ad Eleusi, custodisce, soccorri Psiche che ti supplica, la sua povera vita’ (https://digilander.libero.it/Bukowski/Amore%20e%20Psiche.htm#BellezzaPsicheIt).
Si tratta di quella stessa Cerere/Demetra di cui si scrive: “neppure Zeus, re dell’Olimpo, può prendere, senza patirne le conseguenze, decisioni che riguardano la dea e ciò di cui essa è la rappresentante. Altrimenti, la signora delle germinazioni e della negoziazione, del passaggio tra morte e vita, può interrompere le generazioni, precipitare distruzioni e carestie tali da compromettere la sussistenza degli umani e insieme quella degli dei che essi onorano. Occorre quindi riconoscere ciò che essa pretende, le sue intenzioni, per poterne ammansire la terribile potenza” (Coppo, in Coppo e Consigliere, 2014). Ma Cerere, seppure non imprigionandola, non aiuterà Psiche; neppure lo farà Giunone.
A che punto delle sue peripezie si trova la Psiche 2.0? “La patologia del nostro tempo è una patologia del desiderio, cioè della pulsione. Il soggetto non accade e quindi c’è una divisione tra l’Io e il Sé. Non c’è la capacità di riprendere sé stessi. Perché: che differenza c’è tra il Sé e l’Io? Nessuna, tranne che l’Io riflette sul Sé. Accade l’Io perché c’è una riflessione sul Sé. L’Io cerca di sapere di sé ciò che non sa” (Natoli, 2019). Psiche non ha nessuna intenzione di scoprire Amore, tutta intenta com’é a masturbarsi con uno smartphone.
Morte Macabre – Symphonic holocaust
https://www.youtube.com/watch?v=2GXfUFGkI-k
Il presente articolo è riproducibile, in parte o in toto, esclusivamente citando autore e fonte
(Silvia Noris – www.silvianoris.it)
BIBLIOGRAFIA
- Abbott, E. A. (1966). Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni. Milano: Adelphi Edizioni
- Bersani, M. (2017). Dacci oggi il nostro debito quotidiano. Strategie dell’impoverimento di massa. Roma: DeriveApprodi
- Cardamone, G. e Zorzetto, S. (2019). Un nuovo territorio per la salute mentale. Materiale didattico per il Centro Studi Sagara, lezione del 16 novembre 2019
- Cestari, R. (2012). L’inganno psichiatrico. Milano: Lib&Res
- Coppo, P. e Consigliere, S., a cura di (2014). Rizomi greci. Paderno Dugnano (MI): Edizioni Colibrì
- Coppo, P. (2019a). Etnopsichiatria dell’Occidente: impotenza appresa, colonizzazione dell’immaginario, nostalgia del futuro. Testo per il Congresso della Società di Psichiatria Sociale, Sezione Svizzera Italiana “Mutamenti sociali e nuove forme del disagio psichico”, Mendrisio 12 aprile 2019
- Coppo, P. (2019b). Dipendenze e culture. Materiale didattico per il Centro Studi Sagara, lezione del 9 ottobre 2019
- Danowski, D. e Viveiros de Castro, E. (2017). Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine. Milano: Nottetempo
- Della Luna, M. e Cioni, P. (2011). Neuroschiavi. Liberiamoci dalla manipolazione psicologica, politica, economica e religiosa. Cesena (FC): Macro
- Natoli, S. (2019). Patologie del desiderio ed etica delle virtù. Congresso della Società di Psichiatria Sociale, Sezione Svizzera Italiana “Mutamenti sociali e nuove forme di disagio psichico”, Mendrisio 12 aprile 2019. Trascrizione di Lelia Pisani, Centro Studi Sagara.
- Signorelli, L. (1997). L’estetica del metallaro. Là fuori ci sono solo mostri. Roma-Napoli: Edizioni Theoria
- Winnicott, D.W. (1974). Gioco e realtà. Roma: Armando
- Sartori, G. (2000). Homo videns. Roma-Bari: Editori Laterza
- Stanghellini, G. (2017). Noi siamo un dialogo. Antropologia, psicopatologia, cura. Milano: Raffaello Cortina Editore
FILMOGRAFIA
- 12 anni schiavo (2013). Regia di Steve McQueen
- Goodbye, Lenin! (2003). Regia di Wolfgang Becker
- Inception (2010). Regia di Christopher Nolan
- Melancholia (2011). Regia di Lars von Trier