Sexwar. Trasmutazioni traumatiche del corpo sessuato di M. Gualtieri e S. Inglese – un commento

Non so esattamente cosa mi abbia attirato di questo capitolo, credo di aver istintivamente pensato a due donne molto diverse tra loro che conosco da un po’. Mi sono detta che questa lettura mi avrebbe aiutata, senza sapere perché. Una volta terminato il capitolo, quel che è rimasto di questa intuizione iniziale del collegamento con storie di vita individuali è quello che il titolo mi richiama come suggestione: la sessualità come campo di battaglia. Battaglia intesa come conflitto intrapsichico e idiosincrasico da una parte, conflitto sociale e politico dall’altra (e ideologico, come suggerisce il capitolo), fino ad arrivare alla guerra aperta con gli stupri etnici e le sterilizzazioni forzate delle minoranze.

Dell’argomento trattato, nel senso di mutilazioni genitali femminili, ho sentito parlare diverse volte a partire dai seminari dell’Università degli Studi di Padova, che nel lontano 1998 proponeva il tema come appendice dell’insegnamento di Biologia. Questo capitolo ha il merito di proporre una prospettiva inusuale e coraggiosa, a prima firma femminile s’intende.

Innanzitutto pone l’attenzione, in chiave etnopsichiatrica, sulle parole usate per definire il fenomeno, sottolineandone la non neutralità linguistica. Il suggerimento di utilizzare l’espressione alternativa trasmutazione traumatica del corpo sessuato è dunque un primo passo per decostruire categorie di pensiero implicitamente intoccabili: tutto quello che entra nella sfera dei “valori” (universali?), dei “diritti” (fondamentali?), i muri portanti che sorreggono tutto quanto il peso dell’occidentalità. Scrivevano Nathan e Stengers:

“I bianchi, in genere, ritengono che esistano due tipi di società. Quelle in cui il pensare prevale sul credere e quelle in cui il credere prevale sul pensare. Naturalmente la società dei bianchi appartiene al primo tipo. […] Quelli che «credono» accedono solo al simbolo, mentre quelli che «pensano» accedono alla cosa simboleggiata, all’essere stesso della cosa. […] Lo dichiaro apertamente: è proprio il concetto di «simbolo» a impedire il riconoscimento dei sistemi terapeutici non scientifici come autentici sistemi di pensiero tecnico” (Nathan e Stengers, 1996).

Si concretizza così, nella quotidianità del dibattito socio-politico e nei risvolti della pratica delle professioni d’aiuto (o piuttosto missionarie?) con utenza straniera, un vero e proprio cortocircuito in cui concetti di segno opposto ma di uguale potenza si scontrano tra loro. Non solo si scontrano intenzioni diverse di culture diverse:

“L’individuazione delle MGF quale fattispecie di reato rivela la difficoltà di conciliare l’integrazione e la salvaguardia delle differenze etniche, inaugura un conflitto tra i valori (giuridici, morali, religiosi e sociali) dei paesi di accoglienza e quelli delle società di provenienza, tracciando un confine immateriale, ma intransitabile, tra donne emancipate e donne identificate come vittime della propria cultura” (Inglese e Cardamone, 2017).

Ma anche, e forse soprattutto, si scontrano intenzioni diverse della stessa cultura, quella occidentale.

Nel caso specifico, come nel fenomeno delle spose bambine, il concetto “diritti delle donne” risulta incompatibile con il concetto “tutela delle minoranze” pur essendo entrambi figli del medesimo campo ideologico di sinistra. Fattivamente ne consegue un irrigidimento, morale e giuridico, repressivo: sexwar.

In un siffatto panorama ogni cosa (fenomeno o idea che sia), tirata e stirata ad oltranza, si trasforma nel suo contrario senza che osservatori e agenti se ne accorgano. Il liberalismo diventa anti-liberale, il progressismo diventa reazione, e così via, senza che però a questa trasformazione segua una metamorfosi linguistica. Si usa quindi il medesimo termine per indicare opposte fenomenologie di un concetto, che diventano linguisticamente e di conseguenza ideologicamente indistinguibili. Che differenza c’è tra una guerra e una missione di pace? Un grande scotoma nasconde una grande contraddizione in termini. Le Barbie umane sono donne emancipate o vittime della loro cultura? E le 30enni che si dichiarano femministe e optano per la depilazione definitiva tramite laser?

Lo scotoma occidentale non riguarda soltanto il ruolo delle donne nella continuità del fenomeno MGF, ma anche la nostra stessa storia, come se il progresso implicasse un incenerimento di tutto il pregresso, come ampiamente sottolineato nel capitolo.

Certo, anche la critica dell’Occidente fa parte della occidentalità…

Il presente articolo è riproducibile, in parte o in toto, esclusivamente citando autore e fonte

(Silvia Noris – www.silvianoris.it)

 

BIBLIOGRAFIA

  • Inglese, S. e Cardamone, G. (2017). Déjà vu 2. Laboratori di etnopsichiatria critica. Paderno Dugnano: Colibrì edizioni
  • Nathan, T. e Stengers, I. (1996). Medici e stregoni. Torino: Bollati Boringhieri

 

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