“Consultazione culturale. L’incontro con l’altro nella cura della salute mentale.” di Kirmayer et al. (2020) – un commento

Consultazione culturale. L'incontro con l'altro nella cura della salute mentale.

Ho letto con attenzione il testo “Consultazione culturale. L’incontro con l’altro nella cura della salute mentale” di Kirmayer et al. (2020), per avere un’idea generale del funzionamento della consultazione culturale, in particolare con famiglie straniere, in stile canadese.

Rispetto al modello francese –quello di Marie Rose Moro, non di Tobie Nathan-, a me decisamente più noto in virtù di formazione ed esperienze legate alla cooperativa Crinali di Milano che ad esso si ispira, ho rilevato alcune differenze.

Innanzitutto, l’intero impianto teorico della consultazione è basato rispettivamente sulla prospettiva sistemica da una parte (Guzder in Canada) e su quella psicoanalitica dall’altra (Moro in Francia); questo lascia ovviamente impronte riconoscibilissime nella pratica clinica. Non tanto per quanto riguarda i concetti di universalismo e neutralità, annoverati giustamente dalla Guzder negli impliciti psicoanalitici (se pure per lo meno il secondo mi sia sempre sembrato un cliché abbandonato da tempo più che una pratica condivisa), quanto per gli obiettivi che l’intervento si prefigge di raggiungere: modificare una situazione concreta vs comprendere e far comprendere i processi sottostanti. Gli obiettivi a lungo termine anche si discostano tra loro, muovendosi su un continuum che va dalla ricerca alla clinica.

In secondo luogo la natura dell’intervento, consultiva vs terapeutica, che si riflette nella denominazione dei suoi protagonisti (consulente principale e terapeuta principale) e la sua durata, da 1/3 incontri a n sedute a “geometria variabile”. Il modus operandi del CCS risulta più simile al tipo di lavoro di mediazione culturale in ambito ospedaliero proposto da Serge Bouznah o di mediazione etnoclinica portato avanti dal Centro Studi Sagara.

Mi ha incuriosita poi il concetto di identità ibride, a cui sono meno avvezza rispetto a quello di identità meticciate. Il termine metissage non ha mai finito di convincermi poiché mi suggerisce l’idea di una cosa nuova in cui le diverse parti che la compongono sono diventate indistinguibili, con un risultato fenomenologicamente omogeneo. Diversamente, il termine ibrido mi suggerisce un insieme di cose diverse che non legano del tutto tra loro, rimanendo in qualche modo eterogenee. Questa suggestione mi riporta inevitabilmente alle differenze dei contesti in cui le parole vengono usate. In Francia l’idea dell’omogeneità è del tutto coerente con la spinta fortemente livellante delle differenze e centralizzante rispetto all’immagine del francese (si pensi all’insistenza sulla lingua, ad esempio). In Canada l’idea dell’eterogeneità è a sua volta del tutto coerente con la strutturazione bidimensionale del canadese (bilingue, biculturale: termini su cui si insiste molto nel testo).

In altri scritti precedenti avevo già sottolineato la mia perplessità di utilizzare il modello francese in Italia, a causa delle diverse caratteristiche storiche, sociali e politiche. È possibile e auspicabile trapiantare in questa terra di inventori e briganti qualcosa cresciuto nella patria dell’egalité? La stessa riflessione vale, a mio avviso, anche per l’esperienza canadese, forse ancora più distante dalla realtà italiana sia dei servizi di salute mentale che della storia migratoria.

Se ci immaginiamo il sapere come una persona, non possiamo pensare che si possa muovere nello spazio e nel tempo senza modificarsi adattandosi al contesto. Perché la migrazione si svolga senza conseguenze patologiche è necessario, tra le altre cose, che avvenga una ristrutturazione identitaria e narrativa, in qualche modo unica.

Mi domando se e come questi modelli, differenti sotto tanti punti di vista ma vicini per mission, possano intrecciarsi fruttuosamente tra loro. Rilevo con un certo disappunto come non ci sia mai stata la possibilità di un incontro e confronto tra rappresentanti delle diverse prospettive. In entrambi i casi rilevo una qualche forma di autoreferenzialità, che trova rappresentazione plastica nelle bibliografie dei contenuti, mutualmente escludentesi. Temo che, come spesso accade, le teorie si siano sviluppate attorno alla genialità di alcune persone e all’unicità delle loro storie.

Il limite della riproducibilità sta forse tutto qui. La mia personalissima opinione sulla trasmissibilità della conoscenza viaggia nella direzione della impossibilità di una trasmissione per via didattica e una preferenzialità per l’intuizione folgorante e/o il lento assorbimento di una disciplina, che ha più a che fare con l’essere che con il fare, come pure suggeriva un vecchio detto orientale che non ricordo più.

Trovo comunque che sarebbe estremamente interessante e formativo per chi si affaccia a queste tematiche poter assistere a una prospettiva dialogica e, oserei dire, perciò laica. Quando si dice di creare ponti tra sistemi e dissolvere posizioni rigide attraverso l’uso di paradigmi flessibili…  Forse proprio i curatori dell’edizione italiana del testo canadese potrebbero pensare all’utilità di redigere un compendio, non solo in ottica comparativa, delle varie prospettive che hanno a che fare con l’incontro tra culture (anche quella istituzionale!) in salute mentale.

 

Il presente articolo è riproducibile, in parte o in toto, esclusivamente citando autore e fonte (Silvia Noris – www-silvianoris.it)

 

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