
Considerare il disturbo mentale come evento, quindi sempre “in anticipo sulla conoscenza”, e non come oggetto (Inglese e Cardamone, 2017), è una prospettiva di lavoro che mi piace molto. Questo era stato il motivo per il quale avevo espresso la mia perplessità alla proposta –fatta da alcuni colleghi- di stesura di un diario clinico nel primissimo periodo dell’emergenza coronavirus, a marzo 2020. A mio parere era infatti troppo presto, era necessario lasciarsi immergere negli avvenimenti, e in qualche modo assorbirli, prima di poterci costruire un pensiero attorno, dove l’anticipo sta proprio nella parola clinico, cioè nell’intenzione dietro all’azione di scrivere un diario.
La medesima perplessità mi abitava quando, di fronte all’esposizione di un mio lavoro che verteva sulla mutazione di paradigma umano in atto, mi è stata mossa una critica per il fatto che mancasse la parte clinica. Per me, come dissi, era troppo presto. Quindi apprezzo una prospettiva autenticamente fenomenologica.
Se è vero che ogni novità antropologica conseguente a una migrazione genera una novità psicopatologica, caratterizzata dal polimorfismo e dalla dinamicità in relazione alla ecologia sociale (ibidem), è vero anche che ogni novità antropologica conseguente a una transizione sociale, soprattutto se rapida e radicale –come quella che stiamo vivendo, che vede l’accelerata finale nell’ultimo anno ma che vede l’inizio nei primi anni 2000- ne genera una.
L’autore del capitolo “4 Way Street” sottolinea come la trasformazione della società (possiamo considerare la società occidentale come estremamente tradizionale, anche se non per come viene comunemente inteso) porti alla dissolvenza della personalità sociale; a quel punto la sindrome diventa incurabile coi mezzi tradizionali. Nel caso della società occidentale i mezzi tradizionali di cura sono quelli che afferiscono alla psichiatria; che ci dobbiamo aspettare, in termini di efficacia dei sistemi di cura, in seguito a questa formidabile transizione sociale e antropologica?
Se la sfida nel confronto con la migrazione sottolinea la necessità di una terapeutica fluida, ibrida, atipica, se la globalizzazione richiede una nuova psichiatria che sappia affrontare il passaggio da un respiro universale ad uno internazionale, da egemonia del modello biopsicosociale all’incorporazione di nuovi paradigmi (ibidem), mi chiedo cosa ci sia effettivamente da mettere sul tavolo ora, ora che forse si avvicina la fine di un processo, il completamento di un evento, a cui deve necessariamente seguire uno sforzo di conoscenza. E se servisse una terapeutica totalmente altra, molto più che prototipica e chimerica, fuori dal perimetro della psicologia e della psichiatria?
Non solo ogni paziente è il paziente 0, ma lo è anche la terapeutica, T0, o meglio: X0. Chissà cosa direbbe Deleuze e cosa penserebbe Foucault della psichiatria che diventa (ritorna?) un sapere assoggettato. D’altra parte si scrive che le discipline psicologiche saturano il vuoto sapienziale solo se le manifestazioni patologiche sono estranee alla matrice sociale di riferimento (ibidem).
Ugo Mattei, giurista, quando riflette sulla rivoluzione tecnologica e sulle sue conseguenze, utilizzando il linguaggio del colonialismo imperialista, dice spesso: “si sperimenta in frontiera (nel suo discorso: nei rapporti di forza del prendere o lasciare sul web) quello che poi si riporterà in madre patria (negli aspetti giuridici, sociali, commerciali, ecc. della vita reale)”. In quest’ottica quindi la psicopatologia delle migrazioni è stato un assaggio (una frontiera) di quella che sarà l’evoluzione della psicopatologia generale (la madre patria) da qui in avanti. Non in quanto forma clinica specifica ma in quanto caratteristiche generali di polimorfismo dinamico e difficile inquadramento nosografico.
Errori diagnostici frutto di teorie in conflitto. Dalla lettura di questi testi si evince che l’unico discrimine tra disordini fenomenologicamente simili sia il tipo di codifica, privata e idiosincrasica nella psicopatologia o collettiva e consensuale nel disordine culturale. È necessario quindi non farsi ingannare da nuclei fenomenologici simili (intenzioni e azioni determinate a distanza sia nella paranoia che nella fattura) ma indagare gli ordini discorsivi sottostanti, radicalmente diversi: cultura popolare tradizionale per la fattura, cultura psicopatologica scientifica per la paranoia. Tutto questo porta a differenti diagnosi, prognosi e terapie (ibidem).
Ma cosa succede quando l’ordine discorsivo sottostante è sconosciuto? È giusto dedurre che non esiste una codifica consensuale, solo perché ne ignoriamo l’esistenza? Si scrive che se la paranoia ha un riferimento esterno in fatti evidenti (ad es. la persona proviene da zone di guerra) allora esiste uno spazio collettivo in cui collocare l’evento e si passa dalla cornice del delirio a quella del trauma.
Mi pare però che l’attività diagnostica si eccessivamente debole, posta in questi termini, se cioè viene affidata a dati di realtà che possono ben essere sconosciuti, perché “è complicato, in questo senso, mettere in relazione l’esperienza dell’individuo con la molteplicità dei fenomeni sociali che possono costituire esperienze reali di attacco, trasformazione, influenzamento ed effrazione del singolo” (ibidem). Soprattutto se le similitudini tra paranoia e tortura sono così evidenti e si concretizzano in una effrazione generalizzata dei confini (fisici, psichici, culturali) e in un pericolo costante ma imprevedibile che fa parte di un processo di annientamento e disumanizzazione.
“Definiamo cultura come costruzione ideologica e materiale, propria di un collettivo umano, che contiene una visione teorica e tecnica dei processi di cura dal male e dalla malattia” (Rossi, citato in Inglese e Cardamone, 2017).
Mi vengono in mente una moltitudine di collettivi umani, con una loro visione teorica e tecnica, cui però non viene riconosciuta legittimità di cultura e, conseguentemente, le cui manifestazioni seppure frutto di una logica consensuale sono annoverate in quadri psicopatologici.
Riguardo alle esperienze schizofreniche tendenti al religioso, al cosmico, al metafisico, di cui parla De Martino, nel corso della lettura ho ripensato ad alcuni testi conosciuti negli ultimi anni. Da una parte, quando in una nota si scrive: “la possibilità di autodistruzione dell’umanità può avere fine soltanto con la sua scomparsa, e siamo incapaci di rappresentare a noi stessi il pericolo apocalittico che abbiamo prodotto” (Andres, citato in De Martino, 2019) emerge violentemente tutta la questione dell’Antropocene e dell’idea della fine del mondo ad essa collegata, su cui dissertano Viveiros de Castro e Danowsky (2017) considerandola in tutte le sue versioni: con vissuto euforico/escatologico o disforico/melancolico, direbbe De Martino.
Di nuovo, mi pongo domande: è lecito e auspicabile, di fronte a sentimenti dilaganti di fine del mondo, di “atmosfera da venerdì santo” (De martino, 2019), categorizzarli come esperienze schizofreniche (o mistiche), o sarebbe necessaria una ricontestualizzazione del testo? La collettivizzazione delle paure le trasforma di per sé in difesa culturale di fronte alla crisi esistenziale tipicamente umana, muovendo “dall’angoscia della storia al mondo operabile” (De martino, 2019)? Devereux direbbe dall’angoscia al metodo…
Dall’altra, mi hanno colpito le pagine riguardo alla somiglianza dell’ambivalenza schizofrenica e l’ambivalenza del numinoso, pure nella diversità “che la prima sta come rischio mentre la seconda sta come risoluzione di questo rischio” (ibidem) rendendolo comunicabile.
Secondo Kalshed (2014), durante le esperienze traumatiche infantili che minano la formazione di un Sé coerente, entrano in gioco delle difese primitive (di tipo dissociativo) e archetipiche. Quando intervengono, una parte dell’io regredisce e una progredisce diventando precocemente adattata al mondo esterno, di solito come falso sé. Nei sogni la parte regredita della personalità assume l’immagine di un sé bambino o animale, innocente e vulnerabile. La parte progredita della personalità è rappresentata invece come grande figura numinosa contemporaneamente benevola e malevola: un tormentatore, un persecutore, che rivela però la sua duplice natura anche di protettore, di salvatore.
Insieme, le due parti costituiscono quello che Kalshed chiama il sistema archetipico di autocura della psiche, ed è governato da un centro della personalità più profondo dell’Io. La funzione di questa figura ambivalente sembra essere quella di proteggere e tutelare quel che resta dello spirito personale dopo il trauma, attraverso il suo isolamento dalla realtà. Questa prospettiva crea, a mio avviso, un ponte tra la dimensione numinosa e quella psicopatologica, quando sottolinea –a differenza di altri psicoanalisti- la doppia valenza del sistema difensivo: crisi disgregante e simbolo risolutivo. E un ponte tra psicosi e trauma.
Il presente articolo è riproducibile, in parte o in toto, esclusivamente citando autore e fonte
(Silvia Noris – www.silvianoris.it)
BIBLIOGRAFIA
- Danowski, D. e Viveiros de Castro, E. (2017). Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine. Milano: Nottetempo
- De Martino, E. (2019). La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali. Torino: Giulio Einaudi editore
- Inglese, S. e Cardamone, G. (2017). Déjà vu 2. Laboratori di etnopsichiatria critica. Paderno Dugnano (MI): Edizioni Colibrì
- Kalshed, D. (2014). Il mondo interiore del trauma. Bergamo: Moretti & Vitali Editori