Etnopsichiatria, a differenza della psichiatria transculturale, non significa “psichiatria per stranieri”, anche se a prima vista questa può essere la sua espressione più evidente. Etnopsichiatria significa, nella versione radicale che ho imparato ad apprezzare e che ho scelto come formazione, una disciplina che fa del suo oggetto, teorico e pratico (tecnico), non solo l’individuo, il suo mondo interno e le sue dinamiche intrapsichiche, ma anche il contesto (familiare, socio-culturale, politico-economico, geopolitico) nel suo complesso. Questo perché si riconosce alla cultura, espressione di un gruppo umano a cui la persona appartiene, sia una funzione patoplastica, nel senso che la cultura dà forma al disagio e alla sua espressione (come se dicesse “non impazzire, ma se lo fai fallo così”) che una funzione terapeutica, nel senso che fornisce le chiavi per comprenderlo, nominarlo e farsene carico. Il disagio mentale viene inteso come manifestazione di un disordine collettivo e non un problema del singolo. E collettiva deve essere anche la sua presa in carico.
Caratteristica peculiare dell’etnopsichiatria è infatti l’essere una disciplina per sua natura multidisciplinare, sia intesa come diverse professionalità del qui e ora (ad ed. antropologi, linguisti ma anche rappresentanti religiosi e spirituali) che in un setting molto allargato partecipano in senso paritario e circolare alla gestione del caso, sia intesa come l’attingere a saperi e saper fare lontani nel tempo (le nostre tradizioni terapeutiche andando indietro –o avanti- nel tempo) e nello spazio (pratiche di altri mondi, frutto di altre storie).
Indispensabile per il terapeuta mettersi in una posizione decentrata rispetto al proprio sistema di pensiero, riconoscendone ed esplicitandone gli assunti impliciti e scontati, quelli che ne influenzano pervasivamente la tecnica, come ogni altra pratica umana, senza neppure essere visti. La psichiatria è il settore etnicamente deputato alla gestione della salute mentale nel mondo occidentale.
Imprescindibile tenere a mente infatti che anche “noi” (occidentali del terzo millennio) siamo etnici, tanto quanto gli “altri” e che la nostra cultura è UNA cultura tra le tante, non LA cultura, nonostante le velleità imperialistiche e le pretese di universalismo e scientificità, che per l’appunto sono dei pilastri della nostra etnicità, frutto della nostra storia. Come sentii dire anni fa in un seminario di antropologia medica: “dentro un’aspirina c’è tutto Aristotele”. O sintetizzando a memoria il pensiero di Isabelle Stengers, chimica con specializzazione in filosofia della scienza, e Tobie Nathan, diplomatico e psicoanalista (Medici e stregoni, 1996): i bianchi pensano, anzi, pensano di pensare, e pensano che tutti gli altri credono.
Ma anche le “controculture” sono un prodotto della medesima matrice culturale, condividendone i presupposti più arcaici del sistema di pensiero e parlando il medesimo linguaggio (come si suol dire, in Italia anche gli atei sono cattolici..), che non è solo forma ma anche sostanza, anche quando ne sono la negazione e la contrastano apertamente dando vita al dissenso. Essere critici nei confronti dell’Occidente è per certi versi un altro pilastro occidentale.
Se dovessi scrivere un manifesto, perciò, dal mio punto di vista l’unica cosa veramente importante da comunicare sarebbe questa: ognuno deve essere libero di scegliere se e come curarsi, affidandosi consapevolmente a una persona, alla sua disciplina e alle sue teorie di riferimento, e ogni “operatore della salute” deve poter curare come sa fare. Ogni tecnica/teoria della salute deve avere pari dignità. Per questo trovo rischioso proporre un “modello” di salute troppo specifico e dettagliato; ricalcare il modello attuale in cui alcune discipline hanno dignità e altre no, solo cambiando i termini dell’equazione, è un pericolo dietro l’angolo.
Certamente, è necessario essere chiari nell’esplicitare le nostre competenze o non competenze tenendo sempre in mente l’etica e la deontologia, e condividere la responsabilità del percorso terapeutico con la persona che cerca il nostro intervento.